Questa non è una recensione né un’analisi dettagliata della colonna sonora, della relazione tra musica e immagine filmica. Non ho ancora avuto modo di vedere il film di Andrea Segre, anche se spero di farlo presto. Credo che la forza di una colonna sonora risieda nella sua capacità di esistere indipendentemente dal film, risuonando oltre il contesto visivo. È chiaro che, all’interno del contenitore visivo, se la colonna sonora funziona, può esaltare, dialogare o persino perdersi insieme alle immagini, creando un’armonia unica.
Era il 2020 e, folgorato dai lavori precedenti, aspettavo con trepidazione Ira, il nuovo disco di Iosonouncane. Poi è arrivato il Covid, e tutto è esploso, complicandosi. L’uscita del disco è stata posticipata, e quando finalmente è arrivato, è stata come una liberazione, una cronaca sonora della sofferenza collettiva che avevamo attraversato. Ira ha segnato un punto di svolta per Iosonouncane, che con quest’opera ha lasciato la forma, seppur personalissima, della canzone d’autore per diventare un compositore in ricerca costante di un linguaggio proprio: un linguaggio forse nuovo, forse antico, ma sicuramente personale.
Ira ha rappresentato una messa a nudo, una deposizione dell’io alla ricerca di un’essenza sonora: un’operazione, a mio avviso, perfettamente riuscita. Andare oltre la forma, rimanendo solo sostanza. Suono puro, vibrazione. Con Ira, Incani ha costruito un proprio linguaggio e codice. La musica diventa uno specchio in cui guardarsi, mettersi in discussione e un ponte verso ciò che non avremmo mai immaginato. Dopo Ira, è uscito un disco dal vivo a coronamento di un tour trionfale e un prezioso album, Jalitah, realizzato in collaborazione con Paolo Angeli. Tornare indietro dopo Ira sarebbe stato privo di senso. Quel disco ha segnato una tabula rasa e Jacopo Incani non poteva che andare avanti, componendo ed esplorando sonorità diverse con libertà totale e coerenza sonora ininterrotta. La musica per il cinema sembra essere la via giusta per questa libertà: influenzarsi con una visione, con una storia collettiva e privata, è stato il modo migliore per proseguire e creare nuove composizioni evocative e poetiche.
Ed eccoci ora al primo volume della collana Il suono attraversato, che esplorerà la produzione di Iosonouncane dedicata alle colonne sonore per cinema e teatro. Gli album saranno numerati in ordine cronologico di scrittura, e questo, Berlinguer – La grande ambizione, è il primo a uscire ma sarà l’ottavo volume della serie. L’approccio di Incani è libero da qualunque altro interesse che non sia la pura espressione di un sentire personale, e la convinzione che anche solo infinitesimamente questo possa muovere qualcuno o qualcosa.
L’ascolto di questo ottavo volume è entusiasmante per la sua capacità evocativa. Queste composizioni non sfigurano affatto al fianco delle grandi opere per il cinema degli ultimi cinquant’anni e ci appaiono come una continuazione sensata e coerente. Suoni acustici ed elettronici, melodia e dissonanza si mescolano, e il quadro sonoro si arricchisce e si illumina a ogni ascolto.
La traccia di apertura, 1973, è programmatica di tutto ciò che ascolteremo, grazie a una diamonica a bocca che intona una melodia essenziale e ci riporta indietro nel tempo, proprio negli anni ’70 in cui si svolgono le vicende narrate nel film. Segue Sofia, breve Wall of sound per launeddas e sintetizzatore. Strumenti antichi e moderni convivono, trasmettendoci una sensazione di precarietà e pericolo con un ritmo incessante. In Piazza della Loggia, torna il tema iniziale scandito da un basso costante, chitarre acustiche e voce, richiamando le sonorità di Storia di un impiegato e riportandoci, con un’intensità quasi insostenibile, all’attentato neofascista del 28 maggio 1974 avvenuto in Piazza della Loggia a Brescia.
Borgata prosegue con un andamento e arrangiamenti classici, consapevole di possedere una melodia straziante che può e deve attraversare il tempo e lo spazio. Tutti gli strumenti vibrano e fluiscono, frutto di un sapere antico. Madre ci fa fluttuare nella pace del liquido amniotico per cinque minuti, con la voce di Daniela Pes che dolcemente ripete poche note, cullandoci. Questa composizione, pur nella sua distanza siderale, evoca la mistica ripetitività di Motore immobile di Giusto Pio. URSS, tra echi e delay di campionatori, ci riporta in uno stato di tensione: se la Guerra Fredda avesse avuto un suono, non credo sarebbe stato molto diverso da questa composizione dissonante e disturbante. Mosca di notte prosegue questa tensione, aggiungendo un pizzico di melodia, ma mantenendo una persistente sensazione di imminente tragedia.
L’undicesima traccia è Brigate Rosse, e qui, come in altri momenti, Incani riesce a dare suono non solo a un periodo storico, politico e culturale, ma anche a restituirne il clima. Le launeddas, il synth e le percussioni, in cinquanta secondi, evocano il senso di utopia, caos, violenza e follia che caratterizzarono quegli anni di lotta armata. Una calda e brillante chitarra acustica arpeggia e avanza spedita in Agnelli. Attorno ci sono rumori, voci sussurranti e suoni indistinti, ma le calde pulsazioni di questo arpeggio ci proteggono e rassicurano sul fatto che non tutto è perduto, anche se tutto intorno si fa oscuro e minaccioso. Giulio, il collezionista è un brano di novanta secondi per solo sintetizzatore. Lo strumento si fa presenza; il suo procedere segue una pulsazione interna ed esprime la tensione elettrica che lo attraversa.
Plebi sfilaccia il tema principale con drum machine ed eco, restituendo una pulsazione febbricitante, un incubo a occhi aperti. Il rapimento di Moro ci trasmette una profonda sensazione di sospensione, esattamente come quella vicenda ha fatto per tutta l’Italia, fino al suo drammatico epilogo. In questo contesto, è significativo rievocare il lavoro di Black Sagaan, che qualche anno fa realizzò Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo, un’opera coraggiosa e intensa sul rapimento di Moro, con sonorità e intuizioni che a tratti sfiorano quelle di questo lavoro di Iosonouncane. Questa è un’ulteriore conferma della bravura di entrambi i musicisti e del fatto che quella frattura continua oggi a essere viva e pulsante, stimolando nuove elaborazioni e sperimentazioni sonore.
Isola Piana ci riporta agli scenari sonori di On Land, ma qui si presenta un paesaggio mediterraneo, luminoso, che vibra e si disperde nei raggi del sole. Nella descrizione dell’amica di Berlinguer, Marina Addis Saba, Isola Piana è descritta come uno scoglio deserto, popolato solo da ragni, lucertole e zecche, con una torre aragonese, o forse spagnola, in cattivo stato di conservazione. È una composizione equilibrata e misurata, in cui ogni riflesso è ponderato e significativo; dopo ripetuti ascolti, emerge come un autentico miracolo sonoro.
Il disco chiude con quello che si annuncia fin da subito come il brano principale: una commovente conclusione e una trascinante canzone. Ci sono brani che danno coraggio e forza, che ti fanno raddrizzare la schiena e guardare solennemente verso il sol dell’avvenire. I funerali di Enrico parla di un evento storico, ma prima ancora racconta della fine di un sogno, della morte e della vita che, comunque, deve proseguire. La composizione e la voce di Daniela Pes ci colpiscono nel profondo; a livello sonoro, il brano ci porta verso il Battiato pop più luminoso degli anni ’70 e ’80. E non l’ho detto finora per pudore, ma ora non posso fare a meno di dire che questo potrebbe sembrare un nastro inedito di Ennio Morricone ritrovato in qualche scatolone polveroso. Tuttavia, sarebbe un torto a Incani, che, pur componendo un brano che vola in quel cielo altissimo, conserva una propria forza e unicità.
Questo è un grande disco, frutto di una visione forte e radicale. Jacopo Incani porta avanti una ricerca coraggiosa e senza compromessi, consapevole del passato ma con un sentire assolutamente contemporaneo. Questo lavoro, insieme agli altri sette che usciranno, ci conduce nelle profondità dell’artista, che funge da diapason per la nostra realtà. È musica per il cuore e per la mente, di cui, in questo oscuro secolo, avremo sempre più bisogno.