Sono morto perché non ho il desiderio,
non ho desiderio perché credo di possedere,
credo di possedere perché non cerco di dare.
Cercando di dare, si vede che non si ha niente,
vedendo che non si ha niente, si cerca di dare se stessi,
cercando di dare se stessi, si vede che non si è niente,
vedendo che non si è niente, si desidera divenire,
desiderando divenire, si vive.*
Può un suono aprire un mondo, evocare un immaginario, trasformare il modo di sentire? Un singolo suono può tanto? In casi miracolosi ed eccezionali, sì. Per nostra fortuna, quest’opera di Gabriele Gasparotti diventa portatrice di mondi e tappeto volante per viaggi interdimensionali, sollevandoci da terra e dal nostro io corporeo per condurci altrove.
Tropismi è uscito da sei mesi, e da allora torno spesso ad ascoltarlo, lasciandomi avvolgere dai suoi suoni, in cerca di qualcosa che continua a sfuggirmi. Ogni volta che mi sono avvicinato a queste composizioni — ed è successo davvero molte volte — mi sono ritrovato a bocca aperta.
Le sensazioni, intuizioni e pensieri associativi sono stati molti e spesso molto distanti tra loro, ma la cosa che più profondamente mi ha toccato è il suono: la sua grana, la sua materialità. In questo lavoro del compositore carrarese, è la materia sonora stessa a essere sconvolgente, frutto, immagino, di un estenuante lavoro di ricerca. Ogni singolo suono e rumore di questo disco è essenziale e necessario: davvero non potremmo chiedere, o immaginare di chiedere, di più!
La ricerca di Gasparotti è fisica e astratta allo stesso tempo. Il musicista, grazie a una sapiente orchestrazione di macchine analogiche — difficili e capricciose, sì, ma da lui domate con maestria — instaura un rapporto profondo e sincero con queste creature sonore, portandoci a partire con lui in questo viaggio sonoro.
Anabasi è la prima delle dieci composizioni che compongono il lavoro ed è subito un’apertura verso mondi sonori diversi tra loro, ma parte di un’unica trama coesa, struggente e suggestiva, come se fossero tutti parte di un antico arazzo tenuto insieme da indissolubili e necessari nodi. L’immagine totale ci sfugge perché in continuo, prismatico cambiamento. L’andamento ipnotico di questo brano mi ha ricordato le atmosfere di Herz aus Glas di Werner Herzog: il ritmo rarefatto e sospeso sembra immergere l’ascoltatore in un paesaggio onirico, carico di mistero e malinconia, come se il tempo stesso fosse sospeso.
Le porte del paradiso è un film per le orecchie, una narrazione più vera del vero, dove silenzi, rombi, armonia e disarmonia si susseguono seguendo una sceneggiatura che non conosciamo. Proprio perché oscura ma stracolma di segni e segnali, ci cattura. In questo brano non posso non citare Battiato nel suo periodo più illuminato, a mio parere quello “bianco”. Soprattutto in questo brano ho risentito forte il brano Il mercato degli dei. Forse si tratta di una citazione consapevole, o forse no: questo non ci è dato sapere, e forse non importa. Quando un artista, o meglio un uomo, si mette in ascolto in maniera profonda, può accadere — grazie alla sua volontà, ma anche a capacità ed eventi misteriosi — di entrare in contatto con qualcosa di altro, di diverso, che viene dal passato, dal futuro, e da nessun luogo al tempo stesso. Questo è, nel mio sentire, Le porte del paradiso.
Dal treno della Via Lattea si apre con uno splendido bordone, una risonanza che richiama la coda spettacolare di un brano che non esiste. I primi due minuti sono una cellula sonora perfetta fatta di fischi, distorsioni e una potente vibrazione centrale che ci attira, come se potessimo entrare nel singolo fotogramma in pellicola di un film che esplode, portandoci al centro di una supernova. Il brano poi prosegue come se davvero ci trovassimo nello spazio a fluttuare, cullati da vibrazioni elettriche e materia stellare vecchia di miliardi di anni. Tutto diviene sempre più veloce, come se un buco nero ci attrasse a sé con impetuosa violenza. Una volta attraversata questa fase, ci troviamo al cospetto della singolarità gravitazionale, dove la curvatura dello spaziotempo diventa infinita. Lì, rassicurati da lunghe e armoniose note che sembrano provenire dagli spartiti di Arvo Pärt, potremmo rimanere a fluttuare in estasi per l’eternità.
Del mondo fluttuante, secondo me, trova una chiave di lettura in questa frase di Yasujirō Ozu: “Non cerco di spiegare nulla nei miei film. Cerco solo di mostrare.” Qui tutto sembra sospeso, come una sequenza in cui il corpo si muove con grazia, senza scatti né interruzioni nette, sfidando la gravità. Un flusso sonoro senza soluzione di continuità che, se suonato o ascoltato infinite volte, potrebbe forse portare ad altri stati di coscienza. Una delle più pure e intense composizioni che io abbia ascoltato da molto tempo a questa parte.
Nel brano O Gloriose Stelle, Gasparotti intreccia poesia, arte e cosmologia, ispirandosi al Canto XXII del Paradiso di Dante, da cui trae il titolo. Come Dante si rivolge alle stelle riconoscendole come fonte d’ingegno e ispirazione, così Gasparotti compone un’opera che dialoga con l’universo. In questo processo, il suo lavoro mi riporta alla mente il Progetto Virgo, che ascolta i tremori dello spazio-tempo generati dagli eventi cosmici. Dove Virgo traduce le onde gravitazionali in segnali misurabili, Gasparotti trasforma la luce e il mistero degli astri in una musica che collega il visibile all’invisibile, l’umano al sublime.
L’Arcadia della mia giovinezza è la sesta composizione, aperta da archi di una bellezza ultraterrena, suonati con solennità e maestria da Benedetta Dazzi. I suoi luminosi cellotronics arricchiscono e completano tutti i brani di Tropismi. Questi archi sembrano essere portati dal vento alle nostre orecchie e, con un incedere rituale, introducono le macchine sonore di Gasparotti. Archi e sintetizzatori dialogano tra loro in una danza sonora che a tratti sembra portarci alle soglie di un abbagliante mistero, rimanendo però fortemente ancorata a terra e a un passato senza tempo.
I cellotronics di Benedetta Dazzi aprono in maniera sacrale e imponente anche la breve composizione Quando il mare le fa oscillare. È come se davvero fossero le maree a far vibrare le corde, come se il loro movimento eterno influenzasse profondamente il procedere di Gasparotti e Dazzi, portandoli a farsi strumenti espressivi dei cicli cosmici. Il riverbero di questo brano è come se ci portasse in un antico monastero arroccato sul mare, ormai invaso da acqua e venti. Lì, i due compositori, in uno stato di estasi profonda, sembrano fondersi con il tutto.
Catabasi è caratterizzato sin dall’inizio dalla presenza imponente dei sintetizzatori di Gasparotti. Torniamo qui al suono e alla sua grana: ogni singola battuta è strabiliante per quanto suoni intensa, limpida e granulosa al tempo stesso. Questo, penso, sia anche merito di Rashad Becker, che ha curato il suono di questo disco. Tutto Tropismi, ma in particolar modo questo brano, mi ha riportato a Il viaggio di G. Mastorna, l’opera visionaria mai realizzata di Federico Fellini. Tutto il travaglio tra sogni, psicanalisi e magia di quel grande progetto incompiuto lo ritrovo qui, in questa Catabasi di Gasparotti. Le parole di Fellini a proposito del suo film sembrano risuonare fortemente anche in questo lavoro musicale:
“Ho scritto un soggetto di un film che non so se sarà mai realizzato, ma che mi ha preso moltissimo. Si intitola Il viaggio di Mastorna. Si tratta di un viaggio metafisico, un viaggio simbolico attraverso il limbo, dove un uomo deve affrontare l’idea della morte.”
Addio è la penultima traccia di Tropismi e ci affascina nella sua apparente semplicità. Da una profonda e scricchiolante vibrazione, raggi sonori lucenti ci avvolgono lentamente. Poi tutto si fa statico e inizia un canto monacale. Su di esso discendono fiati che sembrano presi direttamente dai dischi Albatros curati da Roberto Leydi. Infine, poche note di sintetizzatore chiudono il brano con un taglio netto. Come se ci trovassimo nel Bardo, questo brano ci guida attraverso uno stato intermedio di transizione, dove ci sembra di essere sospesi tra mondi, nel fragile momento che precede una rinascita, in una dimensione di riflessione e malinconia.
L’ultimo brano, Per sempre, è il manifesto di questa musica senza tempo, fatta di profonda conoscenza e visionarietà, di consapevolezza e volontà di ricerca senza compromessi. Questo ultimo brano, come gli altri nove che compongono Tropismi, è un luminosissimo tassello dell’arte di Gasparotti, ma anche di una profonda umanità che, con coraggio, decide di farsi suono e vibrazione per donarsi incondizionatamente.
Istintivamente direi che questo è uno dei migliori dischi usciti nel 2024, ma in realtà non ha alcun senso dirlo: potrebbe essere stato pubblicato nel 1978 o nel 2046. La data di uscita, in questo caso, non ha alcuna importanza. Quest’opera vive nel suo tempo, ma è frutto di tutti i tempi e sarà, appunto, Per sempre.
“Il suono del canto, specialmente quando nasce da un cuore puro, ha il potere di guarire le ferite dell’anima e del corpo. Quando le note si intrecciano armoniosamente, producono un balsamo invisibile che ristora e rafforza lo spirito.”**
La musica di Gasparotti è esattamente questo, balsamo invisibile che ristora e rafforza lo spirito in questi nostri tempi oscuri.
*René Daumal
**Hildegard Von Bingen