Nell’approcciarsi a questo lavoro, la prima domanda che ci si pone è cosa sia peggio fra il nome che il terzetto scozzese si è scelto, il titolo dei due EP che lo compongono o la grafica di copertina: un confronto che meriterebbe di risolversi con una triplice squalifica. Ma poiché siamo qua per parlare prevalentemente di musica, bendiamoci gli occhi ed andiamo ad ascoltare.
Rebecca Sneddon al sax, Colin Stewart al basso e Paul Archibald alla batteria formano un tipico terzetto jazz e piuttosto tipico è il suono con cui si cimentano, nonostante le velleità che traspaiono dal nome e dal titolo. Sì, un po’ di doom vecchia scuola c’è, nell’avanzare lento della sezione ritmica, totalmente assente è invece qualsiasi forma di musica che anticipi il futuro. Il suono secco della batteria e un po’ di distorsione sul basso non bastano ad allineare i Free Nelson Mandoom Jazz ai gruppi più à la page del panorama odierno: le loro composizioni sono in genere lineari, col sax che dispensa melodie morbide notturne e solo occasionalmente, per lo più nel secondo EP, si lascia andare a spigolosità di matrice free, assecondato dagli altri strumenti. Ma è un difetto, in fin dei conti, essere fuori moda? In fondo di jazz core che ci ammorba ce n’è già abbastanza in circolazione e sarebbe anzi il caso di sfoltire i ranghi con qualche mirata esecuzione. Ben venga dunque questa band che guarda al passato e ce ne restituisce una versione alternativa in cui non il prog ma la nascente scena doom dei ’70 si dimostra ricettiva nei confronto del jazz più o meno free: le citazioni di Sonny Rollins e di Ornette Coleman e la cover dei Black Sabbath sono qui a certificarlo.