Francesco Fonassi – Quasai (Les Giants, 2024)

È più importante l’inizio o la fine? L’apertura di un disco o la sua chiusura?
Lo stesso vale per un film, un libro, e forse per la vita stessa.
Non conosco la risposta, ma in questo caso penso che l’apertura di Quasai sia fulminante: un pugno dritto nello stomaco. Un minuto e quaranta secondi di nastri che si rincorrono, si riavvolgono, si scontrano e si strappano, generando un suono al tempo stesso stratificato e compatto. La prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando questo incipit sono stati William Basinski, Pierre Schaeffer e Moondog. Il pensiero associativo può essere una brutta bestia, ma anche portatore di intuizioni, a mio parere. Questi nastri iniziali mi hanno riportato ai Disintegration Loops, alla musica concreta di Schaeffer, al tribalismo di Roberto Musci e all’essenzialità del vichingo della 6th Avenue.

Dopo numerosi ascolti di questo primo breve brano, è stato un profondo piacere lasciarmi trasportare dalle restanti nove composizioni. Quello che leggerete di seguito è un resoconto emozionale e incredulo di un’opera altamente poetica, ma al tempo stesso politica e visionaria.

La seconda breve composizione, Differential I, è fatta della stessa materia della prima, ma la sua reiterazione è più stringente e ossessiva. Nel frattempo, suoni e crepitii ci riportano alle prime fondamentali sperimentazioni con i nastri di Daphne Oram e Delia Derbyshire, ma con un’andatura e un gusto contemporanei. Il terzo brano, Quasai, nella sua stratificazione è un poetico tributo al mondo sonoro costruito da Don Buchla. Come i due precedenti, ha la sua forza nell’apparente semplicità di un loop che, davanti al nostro ascolto stupefatto, si muove in una metamorfosi continua di ritmi, suoni, fruscii. Questi elementi pian piano soppiantano ritmi e melodie, per poi a loro volta trasformarsi in un nuovo flusso sonoro. In queste fasce sonore coesistono voci di cui però non comprendiamo nulla, se non il loro essere umane. Questa composizione, che dà il nome al disco, mi ha ricordato i cut-up di William Burroughs: la loro urgenza abissale, ma anche il loro incedere imprevedibile e inaspettato. La composizione sfuma nel finale, ma potrebbe davvero durare all’infinito, nelle sue cangianti movenze.

Due In Agguato, il quarto brano, ha da subito un incedere misterioso, lisergico e iniziatico. Come boa rapiti dal suono di un flauto, siamo inconsciamente costretti ad assecondare questo brano, in cui i molti suoni e mondi che compaiono e scompaiono sembrano volerci portare altrove. Potrebbe essere il centro di un vulcano o una solitaria e notturna spiaggia del Mediterraneo, ma ciò che conta è la forza intrinseca di questo brano, che non permette all’ascoltatore di rimanere nel suo circoscritto e sicuro mondo. Lo trasporta invece in un altrove fatto di luci e ombre intensissime.

L’incedere di Lingua Stanca è più lento e apparentemente pacificato, ma a questo punto è impossibile che duri. Infatti, dopo circa un minuto, il fraseggio iniziale viene corroso dall’interno, come piante magiche cresciute grazie al ripetuto ascolto di Plantasia di Mort Garson. Qui, i suoni rompono l’ordine iniziale, facendo deragliare e liquefare tutto in un mare di palpitante rumore. Good Cubism è la traccia più lunga del disco (7’25”) e fin dall’inizio mi ricorda il trottare dei cavalli. È come se fossimo nelle prime scene di El Topo: cavalchiamo lentamente nel deserto per compiere un rito di rinascita. Il ritmo del brano è lento e innato, come il nostro respiro. Mentre Fonassi ci guida in un percorso in cui spazio e tempo a tratti perdono nitidezza, apprezziamo sempre di più la cristallina complessità di questo brano, che un lungo feedback finale riporta a terra.

Bad Cubism è la traccia più breve e pacificata del disco. Un reiterato fraseggio di Buchla danza sui fruscii dei nastri, che ricordano il suono delle onde del mare ascoltate da sott’acqua. Una traccia essenziale e perfetta per chiudere gli occhi, rallentare il respiro e diventare un tutt’uno con il suono.
Parte marziale e decisa Quadratura, ottava composizione che sembra avere una missione di vitale importanza. La successione delle note è scattante e nervosa, creando uno scheletro ritmico su cui passano voci, crepitii, echi e presenze fantasmatiche. Un brano notturno e inquieto, che inaspettatamente frena negli ultimi secondi e si perde in un bellissimo eco. Tuttavia, una volta ascoltato, difficilmente ci si libererà della sensazione inquieta che può generare.

Differential II, penultimo brano, sembra davvero un segnale radio alieno captato da una radio giocattolo. Ha un’andatura claudicante e tutta la sua architettura sembra sfuggire, come se rispondesse a regole a noi sconosciute. Qui respiriamo un’aria calda e densa: le vibrazioni sonore sembrano affaticate nel loro movimento, sino al loro lento estinguersi nel finale.

Torniamo alla domanda iniziale: è più importante l’inizio o la fine?
In quest’opera di Fonassi, mi sento di affermare che si equivalgono, almeno in termini di potenza e stimolo alla riflessione. L’ultima composizione, Tempia Stanca, sembra urlare che, in realtà, la fine non esiste. Questo brano, costruito su un basso incessante e dalla grana sempre più grossa, è un flusso sonoro che si inspessisce, dicendoci che per costruire un brano, un progetto o la vita stessa bisogna sudare, soffrire, lavorare e combattere. Quando definivo politica questa musica, intendevo proprio questo: la scelta di lavorare con nastri e sintetizzatori vecchi di quasi un secolo, complessi da suonare, intonare, gestire e trasportare, per creare composizioni complesse e non pacificate. A mio parere, questo significa parlare da un altro mondo di un mondo forse possibile. Ciò che fa Fonassi utilizzando questi strumenti e questo linguaggio non è dissimile da ciò che fa Marta Salogni, che insieme a Matt Bordin cura anche il master del disco: usare tecnologie considerate vecchie e superate per portare una nuova e personale visione del suono e del mondo.

Photo: Gloria Pasotti
Cover: Neide Ramos