Il disco si apre con una chitarra espansa e scintillante, seguita immediatamente dalla voce di Francesca Bono, caratterizzata fin da subito da una grana preziosa e da un raro senso della misura. L’incedere della sua voce è salmodiante, più vicino alle sperimentazioni vocali di Meredith Monk che al rock. Il pezzo segue una crescita esponenziale: entrano i fiati e la batteria, e tutto si fa via via più stratificato. Ma ciò che impressiona davvero in questo brano, che non ci si stancherebbe mai di ascoltare, è la voce. È il centro generatore di tutto, a cui tutto rimanda. Nella parte finale, poi, non si può che rimanere estasiati dall’equilibrio sospeso di tutte le parti, culminando in una chiusa vocale che sigilla un brano che, senza timore, definirei perfetto: consapevole e frutto di un pensiero elevato.
Black Horse si presenta sin da subito con un andamento meditativo e fluttuante. So che non dovrei farlo, ma non posso fare a meno di pensare alla Nico di Desertshore. Tuttavia, il brano scivola poi in dissonanze che evocano suoni di fine Novecento, fino a riportarci a quel maledetto 8 aprile 1994. E nel finale si trasforma una terza volta. Quello che colpisce di brani come questo è la loro capacità di contenere più registri con coerenza, creando un linguaggio unico.
The Trick si apre con un bellissimo arpeggio di synth (immagino l’amato Juno, fedele compagno di viaggio della musicista da tempo), che trova subito una soluzione essenziale ed efficacissima grazie al dialogo tra chitarra, batteria, voce e synth. Se dovessi pensare oggi a un brano in cui tutto è magicamente al proprio posto, penserei a questo. Ogni elemento è discreto, sul punto di svanire, ma con una forte necessità di esserci.
Il quarto brano è un lento, da ballare al buio, in solitudine, mentre fuori dalla finestra rigata dalla pioggia notturna le luci del mondo ci sfiorano. Ci lasciamo pervadere dall’intenso struggimento di questo pezzo. Il suono iniziale sembra quasi scivolato giù dai solchi della musica per aeroporti più famosa del mondo, ma poi tutti gli strumenti e la voce, come cullati dal rumore della notte, ci parlano di quanto l’amore sia davvero l’unica cosa che conti. E così è il momento di riportare tutto a casa intrisi dall’inesprimibile che Francesca ha magicamente reso tangibile in questa ballata senza tempo.
A questo punto mi rendo conto di non aver menzionato una delle caratteristiche che rendono questo lavoro unico e forse irripetibile: i musicisti e la produzione, affidata a Mick Harvey. Qui Harvey fa un lavoro in perfetta continuità con i dischi che hanno segnato la nostra giovinezza e che riposano nelle nostre polverose collezioni. Ma è giusto parlare anche dei musicisti, i cui singoli talenti messi insieme fanno tremare le gambe. Va dato merito a Bono e Harvey di aver orchestrato il tutto con maestria, esaltando ogni elemento. Li elenco solo per dare l’idea di come certi incontri straordinari, quando graziati da qualcuno o qualcosa, possano portare a opere sublimi: Vittoria Burattini, Egle Sommacal, Marcello Petruzzi, Silvia Tarozzi e Alain Johannes.
Tornando alle composizioni Bologna’s Bliss and Conversation, quinta traccia, si presenta essenziale: voce e chitarra, con uno scarno arpeggio che subito fa tremare il cuore. È tutto così intenso e vibrante da sembrare capace di spostare le montagne, o almeno noi e il nostro sentire. Qui il brano si fa personale, ma grazie alla bravura di Francesca diventa anche nostro: i nostri tremori, i nostri dubbi, i nostri slanci. Un’opera dovrebbe fare proprio questo: smuoverci, portarci a un livello più profondo di interiorità. E qui accade, eccome.
La sesta traccia si apre con un suono che Bono e Burattini avevano già esplorato in Suono in un tempo trasfigurato. Qui è ancora più essenziale e trascendente. Batteria, sintetizzatore e voce si fondono in un’unica trama, diventano un solo strumento, procedendo come se nascessero in quel preciso momento, stupiti e stupefacenti. È un suono intenso, violento e commosso allo stesso tempo.
Rating Fire, penultimo brano, sembra inizialmente calmo, ma è solo un’illusione creata dalla splendida chitarra acustica che apre il pezzo. Si stabilisce un equilibrio difficile tra quiete e tempesta, situandosi esattamente in quel punto in cui la luce abbagliante del sole sfiora l’oscurità di un cataclisma. Alla fine, il brano né esplode né si placa, ma resta lì, scorrendo lungo i bordi, imprendibile e bellissimo.
Fracture chiude il disco in modo abbagliante. La chitarra di Egle Sommacal sceglie soluzioni essenziali ed efficaci, con note reiterate che infondono un calore percepibile. Il pezzo si trasforma lentamente in un grande finale, segnato da un ritmo che ricorda una corsa a perdifiato tra immagini ed emozioni di una vita, sublimando tutto ciò che ci ha attraversato, fino a coinvolgere anche la nostra stessa vita. Ciò che emerge qui, e in tutto il disco, è l’onesto e rigoroso mostrarsi di un essere umano, con tutti gli eventi che lo hanno reso ciò che è.
Crumpled Canvas è una questione privata che si fa collettiva. Come Joseph Beuys nella gabbia del coyote, Francesca Bono si muove al proprio ritmo, onesta e totale, e a noi non resta che ringraziarla dal profondo del cuore per questo viaggio. Un viaggio che ci invita a fare qualcosa per noi stessi, per la nostra vita e per chi amiamo.