Per me David Grubbs è l’autore di uno dei dischi che preferisco in assoluto, quel the Ticket del 1998 che me lo fece poggiare nello scaffale dell’Olimpo. Ma David Grubbs è stata persona e musicista cangiante, passata attraverso decenni di storia della musica (l’altra sera osservando il bellissimo documentario sugli Uzeda di Maria Arena quando ho sentito citare i Bastro ho pensato ad altre parti più recondite della sua storia) con diversi progetti, collaborazioni ed onde sonore. Così, alla notizia di un nuovo disco, Whistle from Above (preceduto da quel gioiellino che è The Snake on Its Tail), ho immediatamente contattato Simon Russell di Drag City, Che dopo qualche scambio d’email è riuscito a concordare questa intervista in forma epistolare. Certo, il non essere riusciti a chiacchierare a ruota libera con David ha giocoforza incassato l’intervista in un solco, ma credo comunque ci siano dei sentori intriganti qui dentro, oltre ai meravigliosi suoni contenuti nell’album.
David Grubbs – The Snake On Its Tails (Official video)
Salve David, come stai?
Grazie mille per esserti reso disponibile per una chiacchierata con noi. Sono rimasto particolarmente intrigato dal tuo nuovo disco, che se non erro è il tuo ritorno da solista dopo Creep Mission del 2017 sulla tua Blue Chopstick. Ho preparato qualche domanda con te, eccoci quindi…
Per Whistle from Above hai affermato di aver collaborato con alcuni dei tuoi musicisti preferiti al momento: Rodri, Andrea, Nikos, Nate e Cleek.
Quando hai realizzato che il tuo album avrebbe avuto bisogno di questa impostazione? Come ti eri immaginato Whistle from Above per chiamarli?
Questo disco è stato inusuale per me perché ho suonato molti di questi brani dal vivo per un anno e più prima di registrarli. Inizialmente avevo l’idea che fosse una sorta di documentazione del mio agire solista, ma poi ho realizzato di avere l’opportunità di fare qualcosa di maggiormente unico chiamando il cast con il quale collaboro nell’album. È simile all’ispirazione che ho avuto lavorando all’archivio dei Gastr Del Sol per il disco We Have Dozens of Titles, pensando a tutti coloro che suonarono con noi.
Dove e con chi hai registrato il disco? Ascoltandolo il suono sembra riecheggiare di un’idea ventosa, cinematografica, quasi un dramma compresso e senza esplosioni…
Considerando che è stato registrato in più di due anni sono state molte le location ad essere coinvolte: Upstate New York (ecco il tuo paesaggio scarno ed invernale), un piccolo studio a Brooklyn, il mio appartamento per finire nelle case di alcuni dei musicisti coinvolti in Galles, a Berlino ed Atene.
Sono passati quasi trent’anni dal tuo esordio solista. Una carriera nella quale ti sei declinato in album solisti ed incontri con altri musicisti. Negli album a tuo nome (rispetto, penso, al coinvolgimento dei musicisti ed al disegno del lavoro) hai un modus operandi costante oppure ogni disco è differente?
Parlando dalla mia prospettiva ogni disco è abbastanza differente. Quando ci si imbarca in una nuova registrazione questa può prendere ogni direzione! Non potrebbe essere più diverso dai lavori su commissione, nessuno mi ha dato questi lavori da svolgere. Forse ci sono delle continuità da disco a disco ma sono sempre colpito da quel momento di grande apertura che è l’inizio di un nuovo disco, con l’idea che questo possa andare ovunque. È sempre una sensazione meravigliosa.
Ricordo di averti visto (per l’unica volta ahimè) dal vivo a Lucerna per il tour di The Ticket, accompagnato da Quentin Rollet. Le date pubblicate finora si limitano al Regno Unito. Avremo la possibilità di vederti in continente? Con che formazione affronterai il tour?
Sarò sul continente tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, le date sono già state confermate. Suonerò da solo, sebbene mi sia divertito a suonare in un nuovo trio con Jan St. Werner e Jules Reidy. Finiremo il nostro primo album per l’estate.
Hung in the Sky of the Mind mi sembra un brano che stacchi dall’iniziale andamento del disco, quasi un musicare di elaborazioni mentali. Cosa c’è dietro a questo specifico brano?
Qui siamo Rhodri Davies all’arpa ed io al piano. Già questa strumentazione stacca profondamente dal resto del disco, nessuna chitarra, nessun amplificazione. Mi piace che appaia presto nell’album, venendo registrata come una partenza prima che l’ascoltatore si sia stabilizzato con la musica.
Un’altra pausa è Later in the Tapestry Room, che amplifica il mistero dell’album ancora di più. Le due canzoni sono strategiche e dividono l’album in tre parti. È stato complicato costruirne la tracklist per la visione che avevi di Whistles from Above?
Sono fiero che la sequenza dei brani ti risulti consona, per me questo è un fattore importantissimo. Amo ancora molto gli album e la possibilità che ti danno di di lavorare su un arco compositivo più ampio. Later in the Tapestry Room è una di quelle strane, vero? Sento che ha pochissimo in comune con ciò che arriva prima e ciò che seguirà nel disco e mi piace un sacco questa cosa!
Queen’s Side Eye mi è sembrata una canzone fortemente emozionale, punk nell’anima ma con abiti diversi. Sono pazzo?
Non sei affatto pazzo. Il brano si avvicina molto alle sensazioni delle mie più recenti performance in solo alla chitarra elettrica. A volte devi solo scavare in questo modo.
Il finale dell’album evidenzia ulteriormente un tono drammatico e spaventoso ricorrente, quasi come un contrasto tra oscurità e focolare. Potrebbe anche diventare più pesante, enorme in un ambiente live… ma si conclude con un tono intimo, familiare,
con una serena sbavatura di chitarra. È una sorta di risveglio dopo un viaggio tormentato?
Ancora una volta, penso che la dinamica delle mie performance dal vivo mi abbia in qualche modo guidato rispetto alla costruzione della sequenza dei brani nell’album, ed il trovare improvvisamente queste diverse trame di chitarra quasi alla fine del disco sicuramente
mi piace.
È tormentato? Forse per l’ascoltatore!
Ma per me è una sensazione bellissima.
Appena dopo aver finito di ascoltare Whistle from Above mi sono spostato sull’ultimo album di David Pajo, Ballads of Harry Houdini. Due dischi diversissimi che però credo ben rappresentino la capacità di esprimersi in maniera libera ed originale in una fase matura della propria carriera. Ti senti più libero a suonare con il passare degli anni?
Senza alcun dubbio, mi libero sempre di più invecchiando! E mi sono anche commosso molto ascoltando l’ultimo disco di David Pajo, che è pieno di sorprese e semplicemente stupendo nel suo suonare la chitarra.
Hai ancora sogni, progetti ed idee che magari girano in testa da parecchio e che vorresti realizzare?
C’è una lista apparentemente infinita di artisti con cui sono felice di collaborare al momento: Loren Connors, Taku Unami, Sarah Hennies, Nikos Veliotis, Jules Reidy, Jan St. Werner e molti altri ancora. Il mio impulso è di fare di questa collaborazioni il mio focus centrale prima di iniziare a sognare su altro…
Gestisci Blue Chopsticks da più di 25 anni ormai, anche se l’ultima produzione è stata nel 2022 con il disco condiviso con Jan St.Werner, Translation from Unspecified. Possiamo aspettarci altro su quel fronte?
Sì! La prossima uscita Blue Chopsticks sarà una nuova band chiamata Bitterviper, ovvero io, Taku Unami, Nikos Veliotis, e Sarah Hennies.
Il nostro debutto omonimo verrà pubblicato a luglio!
Grazie mille per tutto David, complimenti ancora e buona continuazione…
Piacere mio, grazie mille per avermi ascoltato!