Un crepitio in lontananza ci attira, portandoci ad avvicinare l’orecchio alla fonte sonora. Curiosi, non possiamo più distogliere l’attenzione fino al termine di questa magistrale opera di Fabio Perletta.
Il primo brano è così materico da far vacillare le nostre certezze su ciò che ci circonda. Crepitii, trascinamenti, rumori di terra e sabbia, echi lontani: tutto questo dà vita a una composizione organica, dotata di una potente forza evocativa. Quella che ci offre è una visione misteriosa, fatta di ombre e flash provenienti da altri tempi e luoghi. Ho ascoltato questo breve brano in loop per circa mezz’ora e posso assicurare che l’effetto di straniamento è garantito. Qui, gli oggetti e gli elementi sembrano animarsi, come se l’intervento umano fosse marginale, mentre le cose prendono il sopravvento per mostrarci quanto limitata sia la nostra esperienza del visibile.
Il secondo brano si apre con poche note sparse di un pianoforte lontano, ma presto tornano i crepitii e i trascinamenti. La tridimensionalità del suono rende l’ascolto un’esperienza profondamente avvolgente: ci raggiungono echi lontani di melodie, mentre in primo piano emerge una fisicità che ci spalanca davanti un baratro. Da sempre ho pensato che la musica sia un ponte, un tramite, e questo brano ne è un esempio lampante. Non è affatto chiaro dove ci possa condurre questa architettura sonora primordiale, ma appare subito come un’apertura su qualcosa di invisibile che, grazie a queste vibrazioni, sembra prendere corpo. Potremmo definirla una danza delle ombre, dove queste ultime lottano per farsi vedere, e noi, intimoriti ma rapiti, non possiamo fare altro che osservarle.
In Senza Titolo III, le schegge sonore sembrano inscenare una danza mesmerica. Gli elementi inerti prendono vita e, con una cadenza irregolare, si sovrappongono e si rincorrono alla ricerca di un’armonia impossibile. Poi, all’improvviso, il silenzio. Segue una serie di movimenti sonori a ritroso, come se la danza iniziale avesse irrimediabilmente alterato un equilibrio. Ora corde, metalli e la materia stessa cercano una forma originaria, senza però riuscire a trovarla, lasciandoci incantati di fronte a questa ricerca della forma nella sua essenza.
Il quarto brano si apre con un rombo profondo che sembra emergere dalle più remote fessure della terra. Anche qui è l’invisibile a parlare, senza conoscere però la nostra lingua. In questo tentativo impossibile di comunicazione, si instaura un dialogo profondo tra noi e una lava sonora che ci travolge. Un pianoforte granuloso, eco di suoni lontani, ci avvolge dolcemente in questo liquido amniotico primordiale. Il brano riesce a essere oscuro e abbagliante allo stesso tempo: in Senza Titolo IV, tutto si mantiene in un equilibrio commovente, come una composizione che cammina su una lama affilatissima senza ferirsi. E ci lascia la sensazione che forse la musica non sia soltanto frutto del nostro ingegno, ma arrivi da altri tempi e spazi. A noi, spetta l’umiltà e la sensibilità di accompagnarla nel suo divenire, e in questo Fabio Perletta dimostra una grande maestria.
Gli ultimi due brani, i più lunghi del disco (circa dieci minuti ciascuno), sviluppano in modo estremamente complesso, ma al tempo stesso naturale, il discorso iniziato nelle prime composizioni. Silenzi densissimi e fasce sonore di consistenze e colori differenti si intrecciano, cercando e perdendo contemporaneamente una forma, una stabilità, una stasi che, nonostante la ricerca primordiale, non possono trovare.
Nessun Legame con la Polvere è un’opera misurata, impetuosa e drammatica, con lampi di profonda gioia. Ascoltando attentamente, si comprende che le composizioni dicono l’esatto opposto del titolo: siamo legati alla polvere da un vincolo eterno. Queste composizioni turbinanti urlano il nostro legame con il tutto, senza distinzioni o gerarchie. Noi siamo il tutto e il tutto è in noi; siamo la polvere da cui veniamo e verso cui ci dirigiamo.