Elli de Mon, di radici, di storie e di casa.

Quando ho iniziato ad ascoltare Raìse, il nuovo album della vicentina Elli de Mon, sono rimasto da subito stregato. Un insieme di blues, folk, stoner, declinato in un dialetto che richiama il passato, i tempi antichi e tradizionali. Un disco che forse non è stato pensato per il presente, ma per un passato ipotetico con il quale mi sarebbe piaciuto crescere e tremare, un mondo di tradizioni, storie e leggende declinate in una musica tonica, viva e libera. Bello è stato scambiare qualche parola con l’autrice di questa bellezza, Elli de Mon.

L’attacco di Raìse ci porta in lande antiche e me sconosciute, ma fortemente evocative, dove si sentono il blues e la magia. Questo disco è un tributo alla tradizione della tua regione ed alla sua storia quindi, per iniziare e contestualizzare, dove vivi, dove si svolge Raìse e che cosa racconta?

Vivo in un piccolo paese dell’alto vicentino il cui nome si basa sulla storia di un Santo, Orso. Ciò che mi ha sempre affascinato non è tanto l’aspetto agiografico o religioso – non essendo io cattolica – quanto la dimensione profondamente umana della sua storia. È una narrazione che mi accompagna dall’infanzia, quando mi veniva raccontata come leggenda locale, ma che col tempo ha rivelato significati sempre più profondi. Al centro della vicenda c’è un uomo che compie un atto terribile: l’uccisione del padre, rappresentante della famiglia d’origine, e della moglie, simbolo della nuova famiglia che aveva costruito. Ma è proprio da questo abisso che inizia un viaggio di espiazione e di ricerca identitaria. È una storia che trascende la dimensione locale per toccare temi universali: il peso delle azioni, la possibilità di redenzione, la ricerca di sé attraverso il confronto con le proprie ombre più profonde. Questa narrazione diventa così uno specchio in cui si riflettono domande esistenziali che appartengono a tutti: il rapporto con le proprie origini, il peso delle scelte, la possibilità di ricostruirsi, l’abbracciare la responsabilità come atto fondante di se stessi.
 
Il primo brano ascoltato del tuo disco è stato El Me Moro e mi ha lasciato esterrefatto, per la violenza accettata, considerando che come ho letto in tue dichiarazioni, si tratta di un brano cantato dalle donne quasi distaccandosi da un testo inaccettabile, con uno scoppio di ardore sonoro che speravo si trattasse di sacrosanta reazione. Che tipo di rapporto hai con questo brano? Cosa ti suscita e cos’ha voluto dire per elaborarlo in questo progetto?
 
El Me Moro è un tradizionale della valle dove abito, la Val Leogra ed è una canzone che porto dentro sin dall’infanzia, quando la sentivo cantare da mia nonna e dalle sue amiche, e che poi ho ritrovato nelle sagre di paese, dove veniva eseguita con tono goliardico e superficiale per suscitare il riso. Crescendo, ho iniziato a comprendere la vera natura del testo: un racconto di violenza domestica che veniva paradossalmente normalizzato attraverso il canto e l’ironia. Elaborare questo brano ha significato confrontarmi con una violenza sistemica che attraversa generazioni di donne, non solo nella mia famiglia ma in tutto il territorio. È una catena di trasmissione culturale di cui dobbiamo tutti assumerci la responsabilità di spezzare. Per questo ho sentito la necessità di trasformare completamente l’approccio musicale: ho trasposto la melodia dal modo maggiore al minore, mantenendo la struttura originale ma caricandola di tutto il suo peso drammatico. Ho voluto che l’arrangiamento riflettesse la gravità del tema: ho cercato sonorità ancestrali, pagane, arcaiche, che poi esplodono in tutta la loro potenza. Quest’esplosione sonora rappresenta sia il dolore represso che la necessità di rompere questo ciclo di violenza normalizzata. Non volevo più che questa storia fosse raccontata come una leggera canzone popolare, ma che emergesse in tutta la sua drammatica verità.
  
A tratto in questo disco, ad esempio in Orso, sembri diventare te stessa una creatura boschiva e bizzarra, quasi un folletto. In altri frangenti mi hai invece ricordato la furia di Lydia Lunch nei Big Sexy Noise. Sei scrittrice, interprete e musicista, che vestito hai voluto dare a Raìse e come hai cercato di indossarlo?
 
Raìse rappresenta un viaggio introspettivo intenso, a tratti doloroso, che ha preso forma in modo quasi febbrile nell’arco di dieci giorni. Ma la vera elaborazione è un processo ancora in corso, un cammino di consapevolezza che continua a rivelare nuovi significati e sfumature. È un’opera che tocca temi profondi e delicati, che richiedono tempo e cura per essere pienamente metabolizzati. In questo disco ho scelto di presentarmi senza filtri, incarnando una donna matura che si assume pienamente la responsabilità delle proprie scelte e del proprio percorso. Non c’è spazio per maschere o artifici: è un’esplorazione autentica delle proprie ombre e della propria luce. Le diverse sfaccettature vocali e interpretative sono forse manifestazioni di questa ricerca di autenticità. E’ un album che rimarrà per me un punto di riferimento fondamentale, indipendentemente dalla sua ricezione esterna, perché ha rappresentato uno strumento potente per scardinare meccanismi consolidati della mia vita. È stato un catalizzatore di trasformazione, un mezzo per raggiungere una nuova consapevolezza di me stessa come artista e come donna.
  
I Raìse, Marco degli Esposti e Francesco Sicchieri, a tratti partono picchiando come forsennati. Come sono andate le registrazioni e che tipo di amalgama avete ricercato per questo lavoro? Con chi avete lavorato, per quanto tempo…dimmi tutto, soprattutto il lavoro che c’è stato dietro e come lo avete rifinito!
 
Le parti che senti nel disco le ho registrate tutte io, a parte la batteria e le percussioni. Marco è intervenuto in fase di missaggio e ha aggiunto delle chitarre per rinforzare il suono, ma ho praticamente fatto tutto da sola, anche i cori (obbligando le voci maschili a venirmi dietro ehehe). L’ho suonato a sessioni di due/tre giorni, perchè avendo un lavoro al di fuori di quello musicale e una famiglia, ho dovuto organizzare tutto in modo certosino. Per registrare tutto mi ci sono voluti circa sei mesi. Marco è il mago dello studio, la potenza sonora che senti sono le sue manine di tecnico del suono che hanno registrato i miei viaggi sonori con molta pazienza. Francesco è l’uomo paziente che si è seduto alla batteria e ha rielaborato le mie indicazioni strampalate. Quando arrivo in studio di solito ho le idee molto chiare e non mi faccio distrarre da nessuno, sono piuttosto cocciuta e il pezzo deve suonare come dico io…non accetto compromessi. Purtroppo qui viene fuori la mia parte intransigente di onewomanband, la lupa solitaria testa di cazzo…in questo disco in particolare ci tenevo a buttare dentro tutte le parti di me che sentivo necessarie per compiere un percorso. Marco e Francesco sono stati dei grandi a venirmi dietro e lasciarmi fare con rispetto.
 
L’immagine di copertina ricorda da una parte un immaginario stoner/PSYCH e dall’altra si lega all’orso ed al dualismo donna-uomo. Ci sono però anche babastrii e colombe, per un equilibrio che mi sembra alquanto instabile e forse il plantigrado rischia di essere il più posato.
Che progetto c’è dietro a questa immagine e chi è Orso? Un uomo, un luogo, un’idea?

 
L’immagine di copertina riflette la complessità della narrazione che sta al cuore di Raìse. E’ stata fatta da Luca Peverelli, un artista molto bravo che ho conosciuto ad un mio concerto. Vedendo i suoi lavori gli ho lasciato carta bianca, sia per la copertina del disco che per il libro, per cui ha fatto tutte le illustrazioni. Orso è molto più di un santo locale: è la storia di un uomo che intraprende un cammino di espiazione e ricerca identitaria, abbracciando tante parti di sé. Orso, in essenza, sono io, sei tu, siamo tutti noi quando decidiamo di affrontare la verità su noi stessi. È chiunque arrivi al punto di smettere di nascondersi dietro capri espiatori, di proiettare le proprie paure sugli altri, di attribuire sempre all’esterno la responsabilità delle proprie sofferenze e dei propri fallimenti. Orso è il momento in cui scegliamo di guardare dentro noi stessi con onestà e coraggio, accettando le nostre ombre e assumendoci pienamente la responsabilità delle nostre azioni e delle nostre scelte. È quel punto di svolta in cui smettiamo di cercare colpevoli fuori da noi e iniziamo invece un vero percorso di consapevolezza e crescita personale.
  
Un altro personaggio che ho evocato in fase di recensione è stata la Mara Redeghieri che sembra apparire a tratti in Suman, ma anche il discorso portato avanti in Matrilineare, splendida raccolta uscita ormai quasi 30 anni fa. C’è un legame con questi mondi od a che esperienze si ricollega Raìse?
 
Non ho avuto molti ascolti italiani nella mia storia di ascoltatrice, purtroppo. Molte cose le sto riscoprendo ora. Raìse si ricollega piuttosto a quello che ho attraversato nella mia vita: gli arrangiamenti della musica classica (sono diplomata in contrabbasso classico), i droni della mia adorata musica indiana, lo stoner dell’adolescenza, il blues dell’età matura.
 
Che tipo di restituzione hai preparato per questo disco a Santorso? Che tipo di riscontro hai avuto dai locali quando la notizia è trapelata e come vanno le cose ora?
 
La dimensione live di Raìse prevede una formazione in trio, la stessa che ha registrato il disco, con me, Marco e Francesco. È una performance complessa che richiede grande versatilità, con continui cambi di strumenti per ricreare le sfumature sonore dell’album. Purtroppo il riscontro da parte dei locali live non è stato quello sperato. Mi sono trovata di fronte a una duplice resistenza: da un lato la diffidenza verso l’uso del dialetto, dall’altro lo scetticismo verso questa nuova formazione a tre. C’è una tendenza a voler mantenere le cose come sono sempre state, una certa resistenza al cambiamento artistico che rende difficile il supporto quando si decide di esplorare nuove direzioni. A questo si aggiunge la situazione generale dei locali italiani che propongono un certo tipo di musica, che stanno attraversando un periodo particolarmente difficile. È un contesto che non facilita la presentazione di progetti innovativi o fuori dagli schemi consueti. Vedremo come si evolverà la situazione, ma rimaniamo determinati a portare avanti questa nuova dimensione artistica nonostante le sfide. 
 
Il disco (e libro con le illustrazioni di Luca Peverelli) è stato autoprodotto grazie ad una raccolta fondi di successo e per poi venir gestito editorialmente da Rivertale Production. Sarà quindi in vendita anche per chi non ha partecipato al crowdfunding? Quante copie avete stampato e quante se ne sono già andate grazie alle sostenitrici ed ai sostenitori?
 
La campagna è andata molto bene e ha raggiunto e superato l’obiettivo in poco tempo. Ma non ti rivelerò i numeri ehehe! Il disco e il libro saranno comunque in vendita ai miei concerti e chi li volesse può comunque scrivermi o trovarli nel magico mondo online. Il disco sarà inoltre distribuito da Rivertale e quindi può essere contattata anche l’etichetta.
 
Cos’ha voluto dire passare dall’inglese al vicentino? Che effetto ti ha fatto sentire la tua voce in questa impresa? Riuscirai a tornare indietro all’inglese oppure il dado ormai è tratto?

Il passaggio al dialetto è stato piuttosto naturale, anzi, cantarlo mi è risultato sorprendentemente facile. Forse perché è la mia lingua madre e tutto è venuto in modo fluido. Ho potuto sperimentare con nuovi timbri e, avendo una padronanza totale della lingua, mi sono concessa di giocare con alcuni suoni, come la “r” e la “s”, cosa che in inglese non mi sentivo sicura di fare. Mi sono sentita libera anche nell’uso delle parole, includendo termini volgari quando erano perfetti per esprimere il messaggio. Ho scoperto di amare il dialetto in musica: credo gli dia un sapore ancestrale, molto diverso dall’uso tradizionale. In Veneto, il dialetto è spesso associato a gruppi politici con cui non mi identifico per niente, oppure è impiegato in ambito artistico con intenti goliardici. Io, invece, l’ho utilizzato in modo profondo. Può essere un idioma complesso, ma credo fermamente nella sua valenza universale.
  
Suonerete in giro per promuovere Raìse? In solo od in trio? Che date avete già piazzato? Vi mischierete alla Scena folk locale oppure che idee avete?
 
Ecco il grande problema: il mio non è un disco folk. E’ essenzialmente un disco rock con diverse influenze, diverse tra loro, persino stoner. Far passare questa cosa è molto difficile: si ha una visone della musica in dialetto molto parziale, legata alla musica tradizionale. Per questo sto incontrando non poche difficoltà: il mio giro rock n’roll è diffidente, le persone appena scoprono che ho fatto un disco in dialetto mi guardano stranite. Inoltre girerò in trio e anche questo è spiazzante per chi mi conosce da sempre come onewomanband. Insomma una gran fatica. Ma non demordo. Per ora da qui all’estate ci sono una ventina di date, per l’autunno si vedrà. Vorrei trovare dei posti più attenti all’ascolto, per cui sto riscoprendo gli house concert, dove il dialogo con l’ascoltatore è diretto. O i piccoli teatri.
 
Se vuoi aggiungere qualcosa il foglio è tuo Elisa, grazie mille e complimenti, l’album è veramente stupendo.
 
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Grazie!!!