Tre headliner di tutto rispetto per una serata dal sapore quasi antico. E’ innegabile osservare come sia Deus che Blond Redhead facciano parte di quelle teste di diamante che hanno caratterizzato principalmente sia gli anni novanta che il ponte del nuovo millennio. Discorso storiograficamente diverso ma culturalmente simile per la band di Blixa Bargeld. Quale pubblico può accumunare quindi questo bizzarro trittico di fine estate? Un pubblico sorprendentemente vario e quindi non soltanto con un range di mezza età. Ovviamente svettano i fourty-plus ma il contingente di fascia universitaria è presente e numeroso, vuoi per la piacevole cornice della piazza del Duomo di Prato che per la variegata rassegna che il giorno prima ha visto The Darkness e il giorno successivo Zen Circus. Benché l’affluenza sia leggermente sotto le aspettative, perlomeno in relazione alla capienza dello spazio, l’audience non è casuale ma devota all’ evento. Aprono i fratelli Pace, sempre alteri e distaccati, ma accompagnati da una Kazu Makino tornata in gran forma a dispetto del brutto incidente di anni fa. Ormai sono passati venticinque anni dagli esordi e le malinconiche ballate del trio sono rimaste nello stesso languido mood talvolta scorticato da poderose impennate elettriche, ma comunque pervase da quella aristocratica eleganza che ha sempre accompagnato la band. Per inconvenienti tecnici, che in seguito scopriremo essere legati a ritardi logistici dei Deus, continuano la kermesse direttamente gli Einsturzende Neubauten. Le aspettative sono alte nonostante tutto: sono passati quasi quarant’anni dagli sfaceli berlinesi e Blixa non è certo più lo scheletrico clown macabro che si percuoteva il petto pluggato con microfoni a contatto. Ora appare piuttosto come un istrionico imbonitore di una certa età, con in mano un radiocomando per cambiare le pagine dei testi su di un piccolo monitor. E’ immobile e come il Dottor Dulcamara, ammalia il pubblico addirittura sottolineando lui medesimo che non è più l’uomo di una volta. Della formazione originale restano Alexander Hacke al basso, sempre un animale da palcoscenico, a piedi scalzi per tutta la performance, ed N.U. Unruh, costruttore ed agitatore delle macchine, o sarebbe meglio dire dei disparati utensili che sempre hanno caratterizzato le esibizioni e la musica della band. Oggi gli E.N. non sono più pericolosi, non sono più una pressa sbuffante che prende miracolosamente vita e si lancia ansimante a capofitto verso il dirupo, non sono più un animale costantemente sull’orlo del collasso. Come avrebbe potuto essere, del resto? Il 2018 non è il 1985. Ma, pur avendoli già visti dal vivo, nel nostro immaginario un’esibizione di questa band dovrebbe essere un evento unico ed irripetibile, dove tutte le componenti umane e non, volgono a creare una evocativa ritualità, imprevedibile e violenta. Fantasie, forse farneticazioni: oggi lo spettacolo del sestetto tedesco è uno show collaudato e perfetto, ogni intervento percussivo è preciso e studiato con teutonica precisione. Certo, un’atmosfera si percepisce, una vibrazione particolare che ti rende cosciente che non stai ascoltando tastiere e samples bensì frese, infissi che crollano sulla lamiera, tubi pluviali e grosse taniche percosse senza pietà. La macchina è troppo collaudata per incepparsi, per non funzionare, per non fare spettacolo. Apre lo show la suggestiva The Garden e ci lascia in punta di forchetta fino ad Haus Der Luge dove la furia esplode sferragliante e sciancata generando un brivido non da poco. La scaletta della serata predilige il repertorio degli anni duemila con incursioni soprattutto nell’album completamente indipendente Alles Wieder Offen (2007), Lament (2014) e Perpetuum Mobile (2004). I primi cinque meravigliosi dischi, fatta eccezione per la già citata Haus Der Luge non vengono sfiorati. Un bello spettacolo in definitva, molto suggestivo e ben congegnato. Grandi professionisti. Inevitabilmente concludere la serata con i Deus è un po’ bizzarro, per quanto la band di Tom Barman appaia tirata e in gran forma. È rock nel senso più tradizionale del termine, obliquo, trasversale, funky: gli aggettivi per il gruppo di Anversa si sono sprecati in questi ultimi vent’anni e sicuramente il pubblico non sembra averli dimenticati. Anche qui la scaletta, stringata a otto pezzi, attinge soprattutto all’ultimo repertorio con qualche incursione in Worst Case Scenario (Hotellounge) e The Ideal Crash (Sister Dew). L’strionico frontman si gioca tutte le carte da mestierante per agguantare il pubblico scusandosi più volte per i ritardi della serata. Lo spettacolo arriva in fondo benissimo e mantenendo un suono pulito nonostante tutte le fragorose sovrastrutture degli strumenti. In definitiva una bella serata che è riuscita a far collimare tre autentici culti del panorama musicale degli ultimi vent’anni e forse più.