Death In June + Fire+Ice + Vurgart – 28/10/11 Carlito’s Way (Retorbido – PV)

Tour del trentennale, dopo lunga assenza dai palchi, per i Death In June: come non esserci? Sì, anche solo per poter dire “li ho visti”, pur con tutti i cattivi auspici che un tour del genere porta con sé: la fama di esibizioni, almeno da un po’ di tempo, non proprio memorabili, l’idea che una cosa del genere possa tradursi in un’operazione nostalgia a buon mercato, il sospetto che una formazione così scarna, col solo accompagnamento di John Murphy alle percussioni, non riesca a restituire la profondità e la complessità di certi pezzi. La paura, in definitiva, di assistere a una messa in scena di un gruppo che, è innegabile, sta al neo-folk come i Rolling Stones stanno al rock. Quale ragione migliore per esserci?
Il Carlito’s Way, un capannone riadattato a pub in stile New Mexico (con tanto di cactus dipinto sulla facciata), a lato di una lunga provinciale, quando arrivo si sta lentamente riempiendo: nel parcheggio semivuoto solo l’assenza delle motrici dei TIR ci fa capire di non essere finiti in mezzo al remake di Dal Tramonto All’Alba; la presenza, nella fila per i biglietti, di alcuni dark dal look vampiresco fa invece tornare qualche dubbio. Tuttavia, man mano che il posto va popolandosi, il pubblico si fa vario, diluendo gli emuli di Bela Lugosi nel mare magnum di metallari, miliziani in camicia bruna, bonehead paramilitari e pure qualche persona normale. Decisamente meno eterogenea è la scelta dei gruppi di supporto; diciamo pure che denota la più death_in_june_retorbido_1totale mancanza di fantasia: Vurgart, volenteroso giovanotto germanico armato solo di chitarra e di una bella voce da crooner che contrasta in modo impressionante con l’aspetto da ragazzino, dimostra di non aver ascoltato altro che il gruppo di Douglas P. dal concepimento ad oggi, mentre il ben più esperto Fire+Ice, accompagnato alla chitarra dallo stesso Vurgart e alle percussioni da John Murphy, si fa almeno apprezzare per alcuni pezzi che abbracciano uno stile musicale dal gusto paganeggiante e tipicamente inglese, esulando dal percorso più scontatamente neo-folk. Quando conclude, dopo che anche Douglas P. ha fatto una comparsata per accompagnarlo in un pezzo, il pubblico comincia ad accalcarsi sotto al palco, addobbato da stendardi con gli emblemi di totenkopf, schwarze sonne e pugni guantati, per il grande evento. Nell’attesa ho il tempo di notare fra i presenti alcuni personaggi noti: Charles Manson, Maga Magò, Mortisia (in molteplice copia) e varie S.A. virate punk che non sarebbero dispiaciute al buon Eric Röhm. Poi, fra un bosco di braccia tese a riprendere e fotografare coi telefonini, i due fanno il loro ingresso: il leader in mimetica estiva e con la storica maschera da mimo calata sul volto, l’attendente Murphy in candida tenuta invernale, cappuccio e maschera che ne copre solo occhi e naso: praticamente Pulcinella alla ritirata di Russia. Dopo la lunga introduzione dove entrambi si cimentano con percussioni e voci, il fiero alleaten Douglas si leva il travestimento, indossa occhiali scuri e cappellino da milite teutonico, imbraccia la sua dodici corde e con Ku Ku Ku, Baby dà il via a una cavalcata di un’ora e tre quarti attraverso i classici dei Death In June. È inevitabile che concerti di questo tipo si trasformino in greatest hits live, ma tutto sommato altro non gli si chiede e non credo che qualcuno possa essere rimasto scontento di una scaletta che ha ripercorso la storia da The Guilty Have No Pride a Peaceful Snow; sì, forse la tipa che con insistenza richiedeva Little Blue Butterfly, ma una su quattrocento ci può stare. Semmai è sulla qualità generale che si può discutere: è normale, anche giusto, che dal vivo le canzoni si mettano in gioco proponendosi sotto vesti diverse rispetto ai dischi, ma qui la povertà francescana della formazione, con le conseguenti limitate soluzioni, altera e spesso sminuisce pezzi ideati per ben altre orchestrazioni, uniformandoli eccessivamente. Ad accentuare la cosa il fatto che i brani che sentiamo sui dischi sono cantati da un death_in_june_retorbido_2ragazzo di 25 che man mano cresce e matura vocalmente, stasera sono tutti eseguiti da un signore di 55 anni, col suo tono ugualmente basso e un po’ monotono. Se questo è comprensibile e certamente non ascrivibile come colpa, lo è, spiace dirlo, la mancanza di pathos che si avverte in molti momenti dell’esibizione: le canzoni sono eseguite una in fila all’altra, senza una parola di presentazione, alcune in versione liofilizzata, altre velocizzate al punto da far venire il sospetto che Doug abbia voglia di chiudere presto la pratica e andarsene a dormire; impressione, almeno questa, spazzata via da un finale in cui i musicisti tornano sul palco per ben due volte, richiamati dagli applausi del pubblico. Restano però nella memoria una versione di All Pigs Must Die esangue, delle Giddy Giddy Carousel e Death Of The West suonate al limite dello speed-folk, una Luther’s Army di pura routine. Certo, sentire certi pezzi dalla viva voce dell’uomo che li ha creati emoziona comunque, ma l’impressione è che si sarebbe potuto fare decisamente di meglio. A confermarlo sono, fra le altre, To Drown A Rose, sentitissima, Kameradshaft che si scopre ancor più scarna e marziale dell’originale, una saltellante She Said Destroy (ormai diventata He Said Destroy) che spinge molti al ballo e scatena un parapiglia nelle retrovie fra un improbabile ballerino e un infastidito astante che pensa bene di sedarlo con un pugno a mazzetta in puro stile Bud Spencer, contrasto comunque subito appianato. Immancabili, come Satisfaction e Paint It, Black a un concerto degli Stones, Rose Clouds Of Holocaust e But What’s Ends When The Symbols Shatters, a rimarcare che, anche a questa età, la classe non è acqua. Così si finisce in crescendo col già citato doppio bis, una versione di C’Est Un Rêve doverosamente rivista in onore del Colonnello Gheddafi e una Runes And Men in cui il vino tedesco citato nel testo originale diventa inevitabilmente italiano, fra l’approvazione del pubblico. Onestamente temevo qualcosa di più triste, ma speravo anche in qualcosa di meglio: me ne vado con la consapevolezza che oggi i miglior Death In June sono quelli che troviamo sui dischi; il tempo passa per tutti. Prima di andarmene, tuttavia, mi sento in dovere di acquistare una maglietta, quella classica, col totenkopf argento: perché quello di Douglas P. è comunque stato un grande gruppo.

Foto di Guido Bisagni