Un sonaglino, la chitarra che si fa sentire, limpida, agra…poi parte la voce di Davide Cedolin e 70 anni di folk agreste ti saltano addosso, con degli stereotipi grossi come le praterie che si levano immediatamente di torno. Si libra altissimi fra i solchi di questo vinile in confezione bella ed austera, da fare vostra assolutamente (e qui devo ringraziare Matteo Casari e Marco Rabingum, abituali ed affidabilissimi pusher sulla linea liguri-elvetica). Ci si sente liberi, come uccelli, ondeggiando sulle orchestrazioni dei sodali del già Japanese Gum.
Tommaso Rolando, Ryan Jewell, Paolo Tortora, Tito Ghiglione, Rocco Spigno, Caterina Rolando lasciano i segni, permettendo al nostro di esprimersi al meglio, quasi come se i Son Volt avessero assunto Zach Condon aka Beirut. Pura magia, ed è soltanto Loosely, il primo pezzo. Con Destination Unknown ugualmente si vaga, sciancrati e leggeri, per la campagna. I pesi citati nel testo “…Territories fade in a puff, and some weights at most….” sembrano tuttalpiù pietre scalciate in souplesse ed il mood sembra essere elegante e leggero, nonostante l’abbinamento (camicia a scacchi e gilet di jeans) portato dal nostro. Sarà probabilmente l’influsso del gatto che viaggia qua e là nell’artwork a dare quel tocco di sorniona svagatezza alla musica, che in Rites under the moon accompagna sacrifici rituali affrontati come si conviene, in buona onda e senza indugi! L’accortezza dell’insieme musicale è qualcosa di molto importante, dosata senza che snaturi l’immediatezza acustica ma coinvolgente e toccante, a sostenere le note vocali di Davide. Tocchi di fiati, lirismo, montagna…associazioni a catena mi riportano alla mente un Tim DeLaughter spogliato di tutto e lasciato di fronte alla cruda natura. Un rappresentare con quanta più onestà possibile il rapporto con la terra, come il movimento di chitarra e cicale di Silver Pines.
Si gira, lato B. An Echo, un allungarsi del cielo mentre la luce sembra andarsene, echi che raddoppiano in testa e ci costringono a rilassarci…c’è qualcosa di dolcemente corrotto ed indolente in questi brani, come se qualcuno avesse offerto dei biscotti alla marjuana all’impomatata bandella western. Un’ottima scelta, non c’è che dire, visto che godiamo di queste aperture stralunate, come in una Vanishing Sky che si vorrebbe urlare seguendo il pestare delle percussioni di Ryan Jewell. Si avanza, verso una fine che non si vorrebbe affrontare, la fine di un bel disco, la fine di una buona bottiglia, la fine di una bella storia…siamo a Silence ed un po’ di magone sale, che di questi tempi non si è sicuri più di nulla, se tutto questo fosse soltanto magia? Calma, non ci agitiamo, spolveriamo i solchi, come da ultimo brano, ed abbracciamo lo sconosciuto. Rischieremo di farlo con un cazzo di sorriso ebete sulla faccia e di venirne distrutti ma, credetemi, se anche solo metà della bellezza di questo disco si è trasformata in nostra forza o convinzione niente e nessuno riuscirà a sconfiggerci.