Daniele Brusaschetto – Cielo Inchiostro (Bosco, 2012)

Daniele Brusaschetto è purtroppo uno dei segreti meglio custoditi della musica italiana. Non solo della musica underground, indie, indipendente o come diavolo volete chiamarla: della musica italiana tutta. Artista poliedrico, che passa senza problemi dal folk al metal, dalla sperimentazione all’attività di remixaggio (il suo lavoro per gli Ovo resta uno dei punti più alti della carriera del duo Dorella/Pedretti), ha dato prova delle proprie qualità in ogni ambito, ottenendo, nel corso di una carriera ormai più che ventennale, solo una limitata fama.
Probabilmente, il primo a non preoccuparsi di una cosa del genere è lui, personaggio schivo e dedito unicamente alla propria opera, ma che un album come Cielo Inchiostro non possa avere la ribalta che merita, è davvero un peccato. Nelle dodici composizioni il lato cantautorale si combina mirabilmente con quello più rumoroso: ne esce un lavoro equilibrato e poetico, in cui il rumore è orchestrato in forme fruibili, mentre la sua peculiare voce svagata è alle prese con testi ormai maturi. Alla base di ogni composizione ci sono costruzioni ritmiche intricate e ripetitive che sostengono uno strato di rumore o tenui giri di synth e basso: su tutto la voce, un morbido sussurro, riesce ad ammansire anche i momenti più rumorosi. I testi, partendo dall’infinitamente piccolo, finanche del banale, descrivono un realtà ricca di dati sensoriali, e contemplandola da una certa distanza, riescono a coglierne il senso d’assurdo e di tragedia, ma anche i frammenti di bellezza e i brevi momenti di serenità. L’unico paragone che può reggere, è con l’ultimo, sottovalutato Battiato (ma un po’ anche quello di Pollution); certo, un Battiato che invece che alla Bla Bla si è fatto le ossa alla Industrial Records, ma le canzoni hanno la stessa compostezza, la stessa linearità, che sacrifica la dinamica alla profondità. Credo di non averlo mai fatto, ma per un disco così è necessario usare, senza timore, la parola capolavoro.