Chiasso means Noise, Magazzino II Chiasso, 29 marzo 2025

Terza serata del festival chiassese: l’emozione è tanta che l’apertura sonora, frutto della residenza artistica passata sotto il cappello Röstibrücke è passata anche sotto la scelta del sottoscritto, proponendo Natalie Peters come contraltare della vodese Laure Federiconi. Dopo una breve presentazioni insieme a Daniel Maszkovicz la parola, il suono e la magia passa nella mano e nella voce di Laure Federiconi e Natalie Peters.

Il suono dell’ugola si sparge sopra al suono digitale e spesso lesivo, creando scariche energetiche convulse. Difficile pensare a cosa e quanto possa essere successo nei tra giorni del loro incontro, certo è che sentirle amalgarsi in questo modo emozionante sul palco sarà poco critico e professionale ma da accompagnatore della curatela mi sembra realmente emozionante. Si ruggisce, si guaisce, si piange, si accompagna e si stacca in una mezz’ora di suono mirabile. Rimbrotti e squittii come se piovesse, perfetti per entrare nel clima della serata.
Quando poi Natalie prende a suonare un pezzo di carta da cucina mettendolo sopra al viso la mia memoria non può che tornare a Justine Yeldham / Lucas Abela, uno dic loro che mi aprirono la calotta cranica dal vivo anni fa e mi sento grato e leggero.
Sì esce, dove dal terreno antistante guardando oltre il parapetto del ponte Vanessà Heer, Caroline Ann Baur e Carmen Oswald stanno ripulendo l’aria con uno jodel che ha del celestiale. Una delle tre cantanti ha addirittura un neonato in braccio e definirle magnetiche è dir poco. Scendono le scale, cantano passeggiando fra il pubblico in maniera intima ed accorata, le auto in sottofondo e curiosità mista a tensione emessa dagli astanti. In due si allontanano mentre la terza inizia a suonare dei piccoli campanelli per mucche, un cane scodinzola fa la gente. Sono finite sotto ad un fico spoglio, dove riprende l’esibizione. I momenti di silenzio vengono smorzati dallo scampanellio, lasciandoci in balia di una dinamica umana, che non rispetta quella di una classica esibizione ma sembra più ad un’intimità remota e condivisa, emozionante e non facilmente gestibile. Mi allontano accompagnando Luciano Chessa in stazione mentre apriamo una parentesi sulla sua composizione che dovrà andare in scena al Casinó di Montecarlo per il centenario del soggiorno monegasco di Marcel Duchamp e rientro con il set di Svetlana Maraš che è già iniziato e la vede impegnata su piccole percussioni digitali e pedalini creando una sorta di percorso scivoloso dove far oscillare e muovere il suono come fosse una pallina metallica soggetta a magnetismo. La seguo osservando le evoluzioni di un ragno sul pavimento, che si sta spingendo in prima fila, mentre altro piccolo insetto sembrano molto interessati alla performance facendosi avanti. È un suono stropicciato e continuo, memore di quanto già espresso da anni, soprattutto dalla scena della Bay Area meno mordace ma che riesce a catalizzare l’attenzione con la sua compostezza. Innescato il giusto ritmo sinusoidale lascia la postazione per spippolare con volumi e distorsioni, a candore il tutto.

Nella retrovia intanto una figura ha iniziato a suonare la batteria e tutto farebbe pensare si tratti di Valentina Magaletti, in una sorta di passaggio di consegne che trasporta lo scambio in una terra che sembra un videogame di scuola Providence mandato al rallentatore. Anche il cane si prende la sua parte di applausi passando sul palco in bella mostra, ma i ritmi sono serrati e crediamo sia già il momento di Marytronics, con relativo tavolo colmo di devices pronti ad essere smarmellati, fra i quali spicca però anche la presenza di un violino. Il duo composto da Marie Delprat e Masha Ten gioca su tappeti ritmici regolari svisando con le corde e richiamando un sogno balcanico in un afterparty all’alba. Momenti più soavi ed eterei si sposano a ritmiche dritte e cardiache, sempre con una forte accezione umana e romantica, nell’ultima della voce extra vocale, nel sussurro. Rifrazioni dub prolungate lasciate alla notte, plasticità acute e rimbombi che paiono crepacci ad accompagnare la coppia in un percorso intricato ed intrigante, dalle parti di una trance elettronica fascinosa ed elegante.
Sarà l’età ma forse quel che manca a questo punto della serata è realmente la botta noise che spezzi ritmo e lasci a bocca aperta, esulando dalla bontà della proposta che dimostra eleganza e capacità di bypassare i confini di un suono trasversale e sperimentale.
Valentina Magaletti sale sul palco ed inizia a percuotere dei piatti poggiati a terra e le stesse assi del palco mentre un suono oscillante viene mandato in loop. Quando poi rientra nel rango della batteria il suono rimane magico, lontano dal mondo percussioni che è possibile immaginarci, in una lingua e secondo un codice del tutto personale. Viaggia su un binario dinamico e personale lasciando molto del pubblico a bocca aperta e si dimostra interprete creativa e finissima, in grado di delineare e colorare la sua bravura come voglia stordendo ed entusiasmandoci.


l finale è per il set più fisico del lotto: rock oseremmo dire per i Gordan, con la voce magica di Svetlana Spajic a reggere il campo fra la batteria ed il basso di Andi Stecher e Guido Möbius. La tradizione balcanica non è qui un tocco di colore, ma è piuttosto la voce e la figura della statuaria Svetlana ad ergersi in un corpo post-punk che. Tratti non sembra lontano da certi Wire ma credete, pur stanchi, fatichiamo ad abbandonare tanta intensità e magia nel tenere il palco, dimostrandosi un progetto enorme e che potrà soltanto to crescere andando ad esplorare la loro discografia, nell’album omonimo che l’anno scorso ne ha confermato acume e capacità di unire mondi. Non sono riuscito a fermare in fotografia nessuno dei loro gesti ma sono certo che molti di essi si siano saldati, con l’adeguata colonna sonora, in molti degli spettatori.
Con la loro esibizione si chiude un festival che darà sicuramente profondità all’offerta culturale insubrica.
Chiasso means noise, per la musica meno allineata con dei guizzi di assoluta bellezza.