Bill Callahan – YTI⅃AƎЯ ( Drag City, 2022)

Antefatto :
Vidi Bill Callahan per l’unica volta nella mia vita al Primavera Sound del 2004, insieme a moltissimi altri che mi avevano già segnato o che mi segnarono ( apici sicuramente Xiu Xiu, Primal Scream, Sun Kill Moon, the Bug, Humbert & Humbert) ma già era lontano da quello che per me era lo Smog stampigliato nella mente, quello di album come Julius Caesar e Red Apple Falls, di EP come Burning Kingdom.
Errore mio, di gioventù e di entusiasmo, che alla luce dei fatti rivela sfoglia dopo sfoglia un autore ancor oggi delicato e fresco come un fiore bagnato di rugiada. Certo, la vocalità si è fatta più attinente a mentori come Lou Reed forse, ma la sensibilità ed il tocco sono quelli di un mondo unicamente suo. Nella medesima aia di Will Oldham ma opposto per lato, che i due si incontrano volentieri per desinare ma poi lavorano ognuno per conto proprio, in questo viaggio ci accompagna come insetti su una chitarra benedetta come quella di Everyway ed anche quando decide di gonfiare il suono rimane ben visibile il legno e la campagna, le botti, la massa torbata della materia. Quando i toni si fanno più pestati Bill mantiene un cantilenante distacco che sembra collegarsi quasi allo spiritual, come nel traditional Bowevil, gestendo enfasi e furia all’interno di binari ben delineati. Quando le magile si srotololano sembra di trovarsi in un rito soul-gospel scardinato dalla funzione e trascinato fra i covoni di grano, ma più in generale sembra di trovarci in una piacevolissima fucina di scavi. I brani vengono appuntiti, raggiungendo minutaggi importanti e lanciati su strali sonori quasi younghiani, corredati da parti vocali più o meno rasserenate a dare atmosfere con luci diverse al tutto. Non so spiegare il perché, ma credo che questo possa essere uno degli album nodali nella situazione attuale di Bill. Il lavoro di produzione mi ricorda quello fatto da Joe Henry per diversi album fantastici (due nomi su tutti? Solomon Burke e Mary Gautier), calda e viscerale, mettendo in evidenza ogni linea fisica del proprio autore, che nonostante un vero e proprio lavoro di squadra ( Matt Kinsey, Emmett Kelly, Sarah Ann Phillips, Jim White, Carl Smith, Mike St. Clair e Derek Phelps) si staglia come più che definito.
Bill ha passato i 56 anni, porta avanti un percorso che è, volente o nolente, in continua mutazione, e che ancora una volta rapisce e mantiene salda attenzione e curiosità. Già non è poco dopo quelli che mi par di ricordare quasi 25 album, ma oltre a quello qui c’ê maestria, devozione e fedeltà ad una certa ottica sonora, che è quella di non lasciare nulla di intentato nel suo discorso.

Chiude con Last One On The Party, raccogliendo stelle filanti e ciambelle avanzate, chiude la porta e torna a casa, e noi con lui.