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True Widow – True Widow (End Sounds, 2008)

Widow. Vedova. Una parola forte. Una parola che richiama ai nostri occhi un’immagine precisa. C’è chi la vede una donna ormai cadente immersa nei ricordi, chi una disperata casalinga in cerca di un porto, chi una nera femme fatale disegnata in rimmel nero e seta rosso rubino. Diverse fonti d’immaginazione. Ma una parola forte. Dentro tiene il suono della sconfitta e le trombe della rivincita, ha un po’ gli occhi di chi ha visto vicina la morte e un po’ quelli di chi invece era troppo lontano per fare qualcosa, lo stomaco infangato di un dolore che in fondo in fondo non è il suo. Se non per interposta persona. Vedova è una condizione dell’ombra, di cui poco si può capire. True Widow investe in pieno il senso di vicolo cieco con uno shoegaze più vicino allo slowcore che ad altro. Le atmosfere sono presto fatte, le esplosioni delle chitarre sempre molto cupe accompagnano lunghi momenti di stagnazione, dove batteria e basso tendono a non disturbare l’equilibrio fragile della linea melodica.

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Get Help – The End Of The New Country (Midriff, 2008)

Esiste un abbattimento intelligente. Di fronte al futuro e alle possibilità che ci si aprono davanti agli occhi, mentre i ghiacci si sciolgono e la Palestina crolla. Esiste un abbattimento intelligente di chi non concede il fianco, ma resta silenzioso. Perchè il rischio sarebbe troppo alto. Perchè dopo tutto anche se rifiutassimo qualsiasi cosa questa civiltà ci ha dato e concesso, non riusciremmo a trovare idee migliori. Almeno così può sembrare. Esiste un abbattimento intelligente che ci illude di essere nell’estatica attesa del salto, quando invece siamo immersi fino al collo nel fango. Come tutti gli altri. Allora invece di nuotare, di annaspare, di sputare sangue, si galleggia cercando un punto di vista più fermo. Più alto. Una visione che generale che assolva e giustifichi. Che sia male o no, è una discussione lunga duemila anni, probabilmente anche di più.

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MojaSfera – Equilibrio Infranto (Autoprodotto, 2008)

A volte è davvero difficile. L'incomprensione, la poca disposizione all'analisi e spesso una buona dose di convinzioni dure a morire. Il buon vecchio tasto FFw che torna a lampeggiare, l'idea che il diritto allo skip e al passare oltre ci sia concesso in onore alla nostra saccenza e superbia. Quindi si resiste per non inciampare nel qualunquismo da caporedattore. Niente FFw, niente next. Il tempo passa, parole e suoni, la bocca si storce e pare sempre di più che il nostro istinto sia un peccato veniale. Il che potrebbe anche essere vero. Ma allora ascoltare musica diventa la pacata fruizione di un prodotto impacchettato, con annesso l'enorme sforzo di tenere a bada i sabotatori al lavoro nelle cervella.

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Guns Are For Kids – It Takes A Nation Of Morons To Hold Us Back (Fourth World, 2008)

Dunque, la storia è più o meno questa: prendere una bella capocciata contro un sottoscala. La prima sensazione che arriva è uno spegnimento generale, poi un dolore pungente da bestemmiarci dietro, quindi un pulsare interno da 60/70bpm che dura diverse ore. La notte insonne. I giorni con una deformazione e la compassione dei vicini. Quindi tutto sparisce, assorbito dal corpo e dal suo continuo ripararsi. Fin che può, fin che resiste. La morale della favola è che le brutte botte, nonostante il male bastardo, se ne vanno in fretta con il loro ricordo mentre i sottoscala restano ad incombere dietro ogni angolo. Che le guerre siano pieni di bambini soldato è molto più di una brutta botta, eppure pare che lo sgomento duri molto meno di un bernoccolo; ogni volta che ce ne ricordiamo dura sempre troppo poco. Quindi ben venga la Forth World Records, ben vengano i Guns Are For Kids, e a questo punto ben venga anche questo disco. Qui però si deve dire di musica.

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