Anatrofobia – Brevi Momenti Di Presenza (Wallace, 2007)

“Eppur si muove” diceva quello e a quanto pare gli Anatrofobia di questa frase hanno fatto una ragione di vita, anzi forse ne hanno fatto un dogma ormai imprescindibile dalla loro musica. Prima di parlare di questo lavoro però, penso che un paio di considerazioni vadano fatte. Dopo l’uscita di  Lecosenonparlano li avevo visti in quartetto ed in pochi mesi avevano già assemblato una scaletta sufficiente per un disco nuovo e per era già materiale rodato da innumerevoli prove e dai molti concerti, nonostante ciò nessuna registrazione e nessuna necessità di farla seguendo un percorso che a quanto pare non va più molto di moda. Una selezione minuziosa delle cose da dire, rafforzando l’idea secondo cui non tutte le cose che passano per la testa di un individuo hanno dignità di essere espresse (lo so, scritto da me sembra una presa per il culo). Ad ogni modo, passa il tempo e prova dopo prova finalmente qualcosa sembra finalmente “quadrare” e questo respingendo la più ovvia soluzione della formazione a quattro che comprendeva Roberto Sassi alla chitarra e che aggiungeva una comoda serie di possibilità e di soluzioni sonore/compositive. Entrando nel vivo del disco, in realtà Biondello ed i fratelli Cartolari non rinunciano ad un quarto in comodo, ma questa volta giocano “col morto” sfruttando l’elettronica. Chiaramente per usare l’elettronica e non snaturarsi lo fanno a modo loro, quindi non samples, glitch o rifiniture varie che ci si potrebbe aspettare, invece veri live-electronics che loro stessi programmano per interagire con gli strumenti. L’altro grande cambiamento rispetto al punto dove li avevamo lasciati in precedenza è la frammentazione e l’appesantirsi del linguaggio, non che non fossero totalmente nuovi a questa dimensione, anzi, forse è un po’ un rivolgersi alle atmosfere di Ruote Che Girano A Vuoto complicandole e giocando maggiormente sui silenzi. Mi ci sono voluti parecchi ascolti per digerire questo disco e tutt’ora credo sia difficile capire quali siano le pause dentro ai pezzi e quali quelle posizionate alla fine di ogni “traccia/frammento” (cosa che si è riproposta anche nell’assistere al live). Il jazz c’è ancora, ma chi li definiva jazz-rock o per lo meno chi si aspetta qualcosa del genere forse rimarrà leggermente spiazzato, in Brevi Momenti Di Presenza la musica contemporanea ha un ruolo tanto importante quanto Moggi nel calcio scommesse degli ultimi dieci anni. Un gioco di “punto-croce” fatto con gli spazi vuoti/pause, la solita “ossessione” del controllo che fa attrito con una naturale predisposizione del gruppo al “non nitido”, ne fuoriesce un disco trattenuto, con tutti i nervi in tensione per rimanere in equilibrio. Gli Anatrofobia sembrano sempre più inclini a giocare una partita a scacchi in solitario, a costo di risultare troppo cervellotici (e questo disco a tratti lo rischia parecchio) ma cercando innanzitutto di auto-stimolarsi “marciar per non marcire” nonostante il soffocare l’istinto rischi di andare a scapito della spontaneità. Il disco, fra accenni di “movimento” e interruzioni che cadono a picco nel vuoto, comunque non suona in stile alfabeto morse pur condividendone l’idea base di essere un codice. A tratti gli Anatrofobia si permettono libere uscite che li portano a forme e suoni free, jazz e folk (inteso come musica popolare e non come “cantautorato voce-acustica”) in cui è più facile riconoscerli e ad un certo punto arriva anche un’apertura quasi a drone che poi svanisce. Questo lavoro dei canavesi è l’istantanea di un passaggio nel momento in cui le cose si stanno muovendo, di un gruppo che dopo tutti questi anni ha ancora voglia di rimettersi in gioco (e che di per sé li colloca su di un isola ben poco affollata). A volte l’isolamento, l’essere alieni a molti circuiti senza riuscire ad integrarvisi agevolmente produce effetti sorprendenti, oltre ad essere la causa principale di molte psicosi. “Chi lascia la cosa vecchia per la nuova… sa cosa perde… ma non sa cosa trova”.