The Artistic Image Is Always a Miracle, l’ultimo album di Alessandra Novaga uscito per l’ormai storica etichetta milanese Die Schachtel è un disco che all’ascolto sorprende per la sua bellezza, per come è in grado di sorprenderti continuamente con la sua semplicità. Nella recensione di Danilo Ligato che trovate a questo link si parla di una vibrazione che attraversa tutto, portando un messaggio universale. Con Alessandra, che sfortunatamente non ho mai avuto l’occasione di incontrare dal vivo, c’era stato qualche abboccamento anni or sono. Conosciuta grazie a Stefano de Ponti, la contattai per la partecipazione ad una compilation su nastro uscita in occasione di un cassette store day, per la quale gentilmente mi donò il suo brano International Hash Ring, da lei commissionato al compositore Travis Just per il suo disco d’esordio, La Chambre de Jeux Sonores uscito ormai dieci anni fa su Setola di Maiale.
Negli anni ho sempre avuto il piacere di seguirne le tracce ed i dischi e, grazie all’intercessione di Micol di Astralway PR, abbiamo approfittato per una lunga chiacchierata che, spero, riesca a generare quel che serve per Alessandra e per i musicisti tutti: la curiosità di ascoltarne i dischi.
Salve Alessandra! È un piacere sentirti! Per la prima volta, anche se ti seguo ormai dal tuo
esordio come solista, ormai mi manca solo di riuscire a sentirti dal vivo, spero di avere
l’occasione presto, magari in qualche concerto relativo al disco appena uscito, The Artistic Image Is Always a Miracle.
Eh, speriamo!
Come sta andando il nuovo disco? Sei contenta?
Sì, sono molto contenta del disco. Mi piace soprattutto il fatto che le impressioni che sento a
riguardo mi sembrano molto profonde, belle e che vadano anche un po’ oltre il mero aspetto
musicale.
Questa cosa mi sembra che tu l’abbia sempre esplicitata, i tuoi dischi hanno sempre riferimenti espliciti oltre alla musica…
Spesso sì. Il fatto che gli ultimi tre lavori siano tutti ispirati a dei registi cinematografici, però, non viene da un calcolo. Vero è che ne è uscita, quasi inconsapevolmente, una sorta di trilogia e io non credo molto al caso. Sarà che il cinema, vecchio e nuovo, mi interessa molto, guardo praticamente un film al giorno. Penso che il cinema sia un’arte molto complessa che si nutre di tanti elementi sia intellettuali, che artistici, che sensoriali, e inevitabilmente diventa una grande fonte di ispirazione per me. Però ognuno dei tre dischi che ho fatto partono e si fondano su questioni affatto diverse tra loro; quello su Werner Rainer Fassbinder è il più cinematografico di tutti perché è ispirato proprio dalle musiche/colonne sonore di Peer Raben, quello su Derek Jarman invece affonda l’ispirazione proprio nell’uomo, nel suo pensiero, nei suoi scritti e nel suo giardino. Quest’ultimo è ancora diverso, è come se avessi voluto trascrivere l’impressione che il cinema di Andrej Adreevič Tarkovskij mi ha lasciato, a volte attraverso il filtro della musica di Johann Sebastian Bach che lui ha usato. Bach è un autore molto importante per me. E’ una sorta di trait d’union tra il mio passato, il mio presente e, immagino, il mio futuro. Tarkovskij e Bach sono due autori che hanno molto in comune in quanto entrambi, attraverso la loro arte, hanno contribuito ad elevare l’essere umano. In entrambi c’è molto misticismo e molta spiritualità e questo aiuta e ispira molto anche me nel trovare uno scopo in quello che faccio. Oggi, purtroppo, sembra che la razza umana faccia il possibile per sprofondare negli inferi,e sembra anche riuscirci molto bene.
Quel che mi colpisce sempre nei tuoi dischi è come tu parta con dei riferimenti espliciti
comunque forti, però poi la tua musica la trovo a bassa soglia. Non è ostica, non è difficile
innamorarsi di quello che fai…
Grazie!
Ad esempio mi sono ascoltato il tuo disco per tre volte di fila in auto e fila che è un piacere, anche perché visti i riferimenti…Tarkovskij, Bach…
Non impegnativo ma al quale dare la giusta attenzione, mentre invece ascoltarlo è semplice e
piacevole, cosa che trovo bellissima perché abbatti ogni tipo di barriera. Se ascoltassi la tua
musica alla radio in un programma che non fosse all'una di notte me la godrei moltissimo. Non è un rischio che ci sia spesso questo paletto della musica colta, sperimentale, per pochi eletti?
Per certi versi hai ragione, molti lavori che per praticità si ascrivono alla cosiddetta ‘musica
sperimentale’, e quindi prendono vie un pò più laterali e di nicchia nel modo in cui vengono diffusi e distribuiti, a volte potrebbero trovare un loro spazio anche in altri ambiti, ma devo dire che farei molta fatica a definire quello in cui potrebbe andare questo disco. Io ho sempre nutrito un pò di dubbi sul termine sperimentale. Jonas Mekas, considerato il grande mentore del cinema sperimentale americano, si faceva beffe di questo termine, dicendo che lui, in realtà, sapeva bene cosa stava facendo, mentre costruiva i suoi film. Lo stesso posso dire io per i miei dischi. L’esperimento sta, forse, nella concezione, nel cosiddetto concept. Come faccio a fare un ritratto di questo artista che mi ispira così tanto? Se fossi una pittrice lo dipingerei (ma anche lì immagino che chi dipinge potrebbe aprire molte questioni), ma io che sono una musicista? E lì che parte il divertimento, per me. Quando mi chiedono che tipo di musica faccio, comunque, è sempre difficile rispondere, anche perché in altre situazioni, vedi il lavoro col trio What We Do When in Silence
(con Nicola Ratti ed Enrico Malatesta), o Sinopia, il disco che ho fatto insieme a Kid Millions, il tipo di musica che viene fuori è molto diverso dai miei lavori in solo, ma è sempre musica in cui trovo una forte identificazione.
No, tu non fai musica sperimentale Alessandra, vai tranquilla! Alla domanda che musica fai rispondi che fai musica evocativa.
Eh, ma stai già dando un aggettivo, non posso dirmelo da sola! Quello che posso dirti, però, è che per me è molto presente l’idea di ‘chi’ ascolterà quello che sto costruendo. Aspiro molto a
provocare un impatto emotivo in chi ascolta i miei dischi. Mi pongo spesso la domanda: Perché chi l’ha ascoltato una volta dovrebbe continuare a farlo? Il ri-ascolto è più importante della prima impressione, per me.
Tu non te lo dici da sola, tu lo vendi agli altri: “Ah, musica evocativa, ok!” Poi lo scopriranno…
Penso che l’unica cosa sensata che potrei rispondere è: Prova ad ascoltare e decidi tu.
Spiegarsi è complicato ed è un problema enorme perché se le persone, invece che aspettare una
spiegazione provassero a scoprire da sé ed ascoltassero, sarebbe tutto molto più semplice!
Tu nasci e frequenti studi classici, giusto? A quanti anni hai iniziato?
A studiare la chitarra classica a dieci anni. L’ho fatto per una vita intera! Ho studiato con grande serietà e passione e con grandi maestri, l’ultima fase proprio nella tua Svizzera, a Basilea. Ma a quarant’anni, più o meno, la mia vita musicale, e non solo evidentemente, ha preso un corso completamente diverso. C’erano già dei dubbi, delle cose che non mi corrispondevano più. Galeotti anche degli incontri importanti con chi mi ha fatto intravedere altre possibilità e altri ambienti, e ho fatto il salto. Nel mio caso devo dire piuttosto radicale perché c’è stato proprio un momento in cui ho deciso che la musica classica, in pubblico, non l’avrei suonata più. Questo non significa che non continui a studiarla, è troppo parte di me, ma il salto mi ha portata in un altro mondo, in un altro ambiente. Mi ha portata nel ‘mondo delle possibilità’.
La chambre de jeux sonores (del 2014, ndr.) fu il tuo primo album. Che tipo di lavorazione fu?
Ho imparato a suonare la chitarra elettrica grazie a quella meraviglia di pezzo che è Trash Tv Trance, di Fausto Romitelli. Per me era uno strumento nuovo e ho avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse a conoscerlo e capirlo, quindi ho commissionato a cinque compositori dei brani che comprendessero una scelta di suoni, che non seguissero una notazione tradizionale e che mi lasciassero margine improvvisativo. Un’altra cosa molto utile e importante, è stata preparare e suonare l’integrale di the Book of Heads di John Zorn. La prima collaborazione importante poi, è stata quella con Sandro Mussida (insieme ad Elio Marchesini abbiamo fondato Hurla Janus); è stato il primo interlocutore con cui ho affrontato questa nuova avventura visto che anche lui, che veniva da altro ancora, si trovava in una situazione simile alla mia. Per qualche anno abbiamo fatto cose di grande impatto, a mio avviso, importanti e fondanti sia da un punto di vista intellettuale che da un punto di vista artistico.
Riguardo al parlare di e con la musica credo che un dialogo sia comunque necessario, una
comunicazione che si interroghi su quel che ascoltiamo ed un messaggio, forse anche inconscio,
che la musica ci offre. Oppure al contesto nel quale la musica sta.
In effetti mi piace molto più parlare di quello che c’è intorno alla musica, più che della musica in sé. Per questo, forse, mi piace molto il cinema, perché è dichiaratamente composto da così tante cose che quando ne parli, o anche solo ci pensi tra te e te, è più facile spaziare.
Credo che con la musica, ed in maniera ancor maggiore con il cinema, proprio per la pluralità degli elementi in gioco, non sia semplice comprendere subito quel che ci scorra davanti agli occhi o dentro le orecchie. C’è probabilmente una sorta di formazione da fare, con entrambi i media, pena il non riuscire a comprendere appieno un’opera. A volte insistendo ed
approfondendo alcune opere si aprono e ci trovi qualcosa, senza sapere cosa stia succedendo,
Con altri dischi o libri semplicemente non succede, nonostante lo sforzo.
È difficile capire come funziona, anche perché la stessa opera può può essere letta in modi molto diversi a seconda di chi ne fruisce.
È una cosa di accoppiamento credo.
Sì, può essere, o forse ci sono anche artisti che sono più chiusi, più introversi, devi andarli un pò a stanare. Come già ti dicevo, io ci provo a riferirmi a qualcuno, mentre suono o progetto, come se volessi restituire qualcosa che a me, per fortuna, molti artisti danno. Mi piacerebbe fare per le persone quello che alcune fanno per me! È un’aspirazione, un obiettivo, uno scopo.
Ma credo che questo succeda!
Lo spero! E’ uno scopo perché in fondo poi mi chiedo: Ma perché farlo? È bello ma anche faticoso, ti esponi tanto. Non ti torna molto indietro, per cui a volte anche i messaggi che arrivano da sconosciuti, da ogni parte del mondo, possono essere molto gratificanti e motivanti. Diciamo che per me la musica è sempre più qualcosa di astratto. Posso passare anche giorni senza toccare la chitarra, non è la mia vita, nel senso che non è il mio interesse esclusivo, ma la musica mi serve sempre più, per arrivare ad altro.
Certo mi piace, non è che voglia fare l’eccentrica e non è una posa, faccio musica perché l’ho
scelto ma andando avanti con l’età i motivi per cui la faccio cambiano, per fortuna.
In questo disco scegli di portare a noi tre brani di Johann Sebastian Bach, per la prima volta anche se già in passato avevi ripreso, rimaneggiato e trascritto musica di altri, facendola tua. Qui però forse vai oltre, unendo Bach a Tarkovsky, riprendendo quindi non dei pezzi ma delle unioni, quasi certificando ciò che è stato creato dall’incontro di altri?
Il tema della trascrizione mi è molto caro ed è qualcosa a cui penso molto. Mi è sempre
interessato e piaciuto ri-scrivere, o anche ri-pensare, musiche di altri. L’ho fatto in Fassbinder Wunderkammer e in I Should Have Been a Gardener, e qui. E il concetto di trascrizione si congiunge con quello di autorialità. Tempo fa ho letto che per Ferruccio Busoni, che è stato un grande compositore e pianista, anche la composizione è un atto di trascrizione, perché quando componi trascrivi un’idea. Quando invece trasponi in qualche modo le opere di qualcun altro, dando per scontato che non stiamo parlando del fare una cover, che secondo me è ancora altro, penso che in qualche modo te ne appropri. In questo album trascrivo ben tre pezzi di quello che io considero uno dei massimi compositori di tutti i tempi, Bach, e la sola idea, finché non ho trovato il motivo per farlo, mi sarebbe sembrata quasi sacrilega. Ma ho sempre pensato che il modo in cui Tarkovskij ha utilizzato la musica di Bach nei suoi film, gli abbia reso una nuova luce, una luce diversa, e così io ho sentito il forte desiderio di provare a restituire, suonando proprio i pezzi scelti dal regista, quell’immagine che si è formata nella mia mente, della musica e delle immagini fuse, per essere un pò semplicisti.
E poi penso, a volte, che sia già tutto lì. Nel momento in cui compongo non ho la più pallida idea da dove vengano le note. Sono già lì. Sto leggendo, in questi giorni, l’ultimo volume della
Recherche di Marcel Proust, quello in cui tira un pò le somme di tutto il percorso, e mi ha colpita il fatto che anche lui scrive che, molto in sintesi, nel momento in cui ha l’illuminazione che lo ispirerà a scrivere La Recherche – che in realtà chi legge ha già letto per intero – è come se fosse già tutto scritto, come se fosse già tutto lì, lui dovrà solo trascriverlo. Penso che questo funzioni per molti creatori in senso lato.
Però fai da filtro, fai da tramite, fai sì che questo si riveli..
Certo, fai da filtro trascrivendo tutta una serie di idee e tutta una serie di pensieri e di esperienze. Ecco, lì torniamo, è la vita! È un’ambizione enorme, è un’aspirazione enorme quella che ho, ma è quella. Se non trovassi più questa spinta penso che smetterei.
No, non smettere..
No figurati! In realtà amo molto fare quello che faccio.
Ma invece, non so se sia mai successo, ma la possibilitâ che le tue composizioni siano prese e rielaborate da altri?
Non saprei. Non ci ho mai pensato a dire il vero. Francamente ho sempre pensato che i miei dischi siano dei progetti talmente unitari e che partono da una visione talmente personale, che non riesco a immaginare che qualcuno dovrebbe volerli rielaborare. Voglio dire che, per esempio, non riesco a pensare a un tema, a un pezzo, per esempio, dissociandolo dal resto del concept. Penso sia anche il motivo per cui, nei dischi che faccio da sola, non ho mai sentito l’esigenza di coinvolgere altri musicisti o musiciste.
Vabbè, speriamo non succeda allora…
Ma no, non voglio inibire nessuno, penso solo che se qualcuno lo facesse, non so in che modo,
magari usando dei frammenti di cose mie, ne farebbe qualcosa di suo, a quel punto.
In questo disco canti anche ed è una cosa bellissima!
Sì! Grazie! Mi è piaciuto molto farlo. Canto, ma più che cantare accenno un tema. Mi interessava
usare la voce come fosse uno strumento, ma producendo un suono più personale, più organico.
Tra l’altro quel pezzo, è l’Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ di Bach, ed è meraviglioso, io lo potrei ascoltare all’infinito nella sua versione originale. E’ stato il pezzo su cui ho riflettuto di più. Non cerco la quadratura, non esce mai uguale, e mi interessa il suo sviluppo proprio come fosse una polaroid che si svela sotto gli occhi, e l’esperienza del riascolto. Quando il pezzo lo conosci, mentre lo ri-ascolti e senti la voce da sola, mi piace l’idea che nella testa si ricreino, come dei fantasmi, le voci che poi si aggiungeranno via via. Ci vuole del tempo prima che l’insieme si componga.
Bach-Busoni – Chorale Prelude ‘Ich ruf zu dir, Herr Jesu Christ’ (V. Horowitz)
Da ascoltatore esterno, leggendo la recensione che Danilo Ligato ha scritto del disco…
Stupenda, ha scritto delle cose meravigliose.
Ho letto praticamente solo quella vista l’estate ed il mancato arrivo dei mensili…
ma guarda, quella di Danilo è stata una delle più profonde, mi ha colpito molto.
Sì, leggendola mi sono detto, mi basta. Ma ascoltandolo del disco mi rimane questa naturalezza, questa semplicità e questa bellezza, per un disco che è veramente bello.
Grazie, mi fai molto felice!
Grazie a te per tutto Alessandra!