Alan Sparhawk – White Roses, My God (Sub Pop, 2024)

Alan

All’inizio potrebbe risultare scioccante ascoltare il primo disco solista di Alan Sparhawk, undici canzoni deviate in salsa hyperpop e totalmente vocoderizzate a strizzare l’occhio alle musiche di tendenza del momento. La perplessità, però, dura solo pochi istanti, appena il tempo per accorgersi di quanto sia forte il rigore espressivo e la ricerca armonica che travalicano qualsiasi formalismo, rendendo l’ascolto non poi così digeribile. Evidente come si tratti di un approccio con strumenti differenti al già consolidato ambito artistico che conosciamo, caratteristica che lega perfettamente il discorso alle ultime due produzioni discografiche dei Low – progetto condiviso dal Nostro per quasi vent’anni con la compagna di vita Mimi Parker, scomparsa  nel 2022 dopo una dura lotta contro il cancro. Se allora si forzava la registrazione verso territori ipersaturi e compressi attraverso un abile gioco di produzione, ora si ritorna a sperimentare con hyper-suoni in fase di scrittura.
White Rose, My God parla, per forza di cose, di perdita e dolore – inutile nascondere l’elefante nella stanza – ma li maneggia come elementi di un quadro più ampio e articolato, quanto il pop che nelle mani di Sparhawk acquista la purezza della vera ricerca. Così cerebrale e ostinato nel fissare i punti di una precisa dimensione: quella di un uomo, un musicista, che utilizza un linguaggio solo all’apparenza leggibile, ma che in realtà cerca di ritrovarsi nelle sue stesse complicate domande, pronunciandole con una sincerità viscerale, tanto tangibile quanto espressionista assieme. Un uomo trasformato dal corso degli eventi, ma che si rende conto di esserci ancora, vivo. Una prospettiva non immediata che travalica il senso del genere, risuonando esotica ma assolutamente non aliena, come la presa di coscienza di una situazione che, per quanto disorientante e spietata, appare nella sua cruda essenza solamente come differente: trasformati, appunto, ma pur sempre – essenzialmente – se stessi.
Le canzoni più semplici dal punto di vista testuale – quelle piccole variazioni di una stessa frase ripetute ossessivamente in I Made This Beat o nel drammatismo futuribile di Can U Hear – affermano perentoriamente proprio questa consapevole individualità che continua a esistere, e malgrado tutto. Anche l’elettro funk aumentato di Feel Something è solo una breve e semplice domanda, ma che non lascia scampo alla coscienza. Del resto, cercare di “sentire” è il punto di partenza per riconnettersi con se stessi e prendersene cura. Bisogna farlo anche per gli altri, come per i due figli che suonano in alcune tracce del disco, per di più prodotto con gli stessi strumenti low budget che Alan e Mimi avevano acquistato per loro.
E ancora, quando Sparhawk canta “Heaven It’s a lonely place if you’re alone”, ammette una facile, quasi banale, eppure terribile verità, una solitudine che va necessariamente sviscerata per andare oltre. Un percorso  terapeutico che nel surreale tribalismo sintetico di Black Water cerca di situare i pensieri più cupi nell’orizzonte di un’esistenza che è giusto proseguire. Not the 1, dal canto suo, è una forma di lirismo perfettamente nelle sue corde, ma che forse non avrebbe trovato altri sbocchi se non in questa precisa e “differente” veste. E se le “rose bianche” che colorano lo psycho dub pestone di Station sono il simbolo dell’amara accettazione, la poesia che anima la canzone fa emergere con disarmante vitalità i sentimenti più fragili, quelli che nelle armonie eteree di Project 4Forever aprono allo spazio interiore della speranza e della fede per trattenere con forza tutta la positività del ricordo.
White Rose, My God è uno dei dischi esistenzialmente più sensati che vi possa capitare di ascoltare, un lavoro tanto bello e interessante per ricerca e fattura quanto dirompente per visionarietà. Qualità, quest’ultima, che potrebbe renderlo apprezzato da alcuni e odiato senza riserve da altri. Personalmente mi ritrovo nel primo gruppo di ascoltatori.