Giu’ nel deserto: l’acida tristezza dei Thin White Rope

Il deserto è al di là della transizione abietta del corpo umano verso l’annullarsi della carne (...); è fase luminosa della morte in cui si conclude la corruzione del corpo.
(J. Baudrillard)

Si fossero formati a New York sarebbero stati senza dubbio diversi: probabilmente degli epigoni dei Television, certo non la band geniale che gettò un ponte tra gli acidi anni ’60 e l’algida new wave del decennio successivo (testimone un rauco Johnny Cash con addosso il blues...).
E invece: sfondo – di più: elemento fondamentale - della vicenda dei Thin White Rope è il deserto della California, trasfigurazione e metafora dei mille possibili deserti reali e immaginari, materiali e interiori. Sentirlo evocato da quelle canzoni solo apparentemente scarne, percorse da assoli di chitarra che sbocciano dal nulla come fiori lussureggianti, fu all’epoca una folgorazione. Potrebbe essere una rivelazione per chi li scopre oggi, perfettamente attuali, dacché furono in anticipo sui tempi.
Un po’ della corda sottile è, in effetti, finita nelle tasche di tanti contemporanei: atmosfere desolate, rivisitazione creativa delle radici, vocalità tormentata ma lirica, canzoni dotate di introspezione, un senso di straniamento generale sempre presente, anche nell’estrema fisicità sonora.
Tutti elementi della cifra stilistica di quella che al tempo non si riuscì ad etichettare meglio di "post-psichedelia": familiare quel prefisso, vero?


In the beginning...

Si dice che l’ambiente dove si cresce sia formativo e in un modo o nell’altro rimanga addosso per il resto della propria vita. Guy Kyser, cantante, chitarrista e principale autore delle canzoni dei Thin White Rope (unico altro elemento fisso l'eccelso chitarrista Roger Kunkel) è nato e cresciuto nel bel mezzo del deserto californiano, che ha esercitato su di lui un incantesimo potente e duraturo, fortissima vocazione segnata dal rapporto continuo con la terra (è laureato in geologia...).
La "sottile corda bianca" - il nome proviene da una racconto di William Burroughs - inizia il suo percorso all’inizio degli anni ‘80 a Davis, piccola città universitaria della California situata nei pressi di Sacramento. Kyser e Kunkel e (vari) compagni passano le consuete avventure dei gruppi nella fase pionieristica: prove, concerti, defezioni, ma questo lo racconta con dovizia di particolari Guy Kyser nell’intervista, e a lui rimando.
Nella primavera del 1984 la band registra un demo che circola tra alcuni addetti ai lavori suscitando entusiasmi. Il gruppo sembra sul punto di registrare un album (nel frattempo Becker è tornato dietro ai tamburi) ma non se ne farà nulla, finché non giunge un’offerta dalla Frontier (all’epoca etichetta dei Circle Jerks...), prontamente accettata.
Nel 1985 il quartetto entra in studio per preparare l’album d’esordio.


La Valle Delle Ossa, La Terra Umida, Il Sole Rosso

Memorabile in ogni suo attimo, Exploring The Axis è disco paradigmatico di una band che esordisce con un sound già perfettamente formato, maturo ed equilibrato. Un caso raro, tipico di alcuni dei maggiori gruppi di sempre, e questo dovrebbe già essere indicativo.
Ogni elemento è al posto giusto: suggestioni acide memori dei Quicksilver Messenger Service e dei Mad River negli assolo, l’orchestrazione delle chitarre ispirata alla coppia Verlaine/Lloyd (superamento dei ruoli ritmica/solista in favore di una complessa e indistinguibile tessitura), la tradizione country e blues che –mirabilmente trasfigurata- fa capolino.
La malinconia alternata ai furenti strappi di Soundtrack; l’incedere incalzante della dichiarazione di intenti Down in the desert; la visionarietà circolare di Lithium e Disney Girl; la psicotica title-track i brani da mandare a memoria, sebbene si tratti di uno di quei lavori in cui citare i singoli brani ha poco senso, tanto è il valore dell’insieme. Come tralasciare The Real West o Dead Grammas On A Train, sarcastiche riletture del country, o Eleven, Atomic Imagery e The Three Song, che trasportano i Television nella Death Valley?
E’ un caleidoscopio di continue suggestioni quest’album, che vive sulla continua alternanza di esplosioni in technicolor memori della psichedelia degli anni ’60 e del bianco e nero della new wave (statunitense ma anche britannica). Su tutto si stende la voce cavernosa, cupa e cantilenante di Guy Kyser: unica e riconoscibilissima, liricamente virile e malinconica al contempo. Indimenticabile, dopo che si è sentita anche una sola volta.

L’album incontra l’entusiastica approvazione della critica un po’ ovunque, e nel corso del 1986 la medesima line-up mette su nastro Moonhead, che esce sempre per Frontier (in Europa pubblica la britannica Zippo/Demon) all’inizio dell’anno seguente.
Una premessa : il suono dei TWR procederà negli anni con aggiustamenti di uno stile che – come già detto - si presentava formato perfettamente fin dall’inizio; mutamenti che appariranno forse all’inizio quasi impercettibili, ma che la familiarità contribuirà a rendere sempre più evidenti.
Un incupimento maggiore segna il secondi disco: le poche atmosfere solari del debutto si stemperano in un’oscurità sempre più figlia della new wave, mentre influenze folk (la meravigliosa Thing) e krautrock (la rigida eppur elastica ritmica della titletrack, l’incedere frammentato di Mother) si infilano prepotenti e convivono accanto a reminescenze punk (Come Around, colpita al centro da uno stranito stacco di chitarre orientaleggianti...). Simile per certi versi all’opera dei coevi Meat Puppets, l’opera di Kyser e Kunkel procede nel solco di uno psicotico e originalissimo aggiornamento della psichedelia: non vi è sentore di revivalismo alcuno, poiché in Thing un’acida chitarra in sottofondo sostituisce una parte normalmente affidata all’armonica e Take It Home s’appoggia a una ritmica dispari; Wet Heart ha un incedere minimale impossibile da concepire nei Quicksilver, come del resto la squadrata ritmica abbracciata alla melodia abbacinante dell’iniziale Not Your Fault.
Le conclusive If Those Tears e Crawl Piss Freeze mandano definitivamente al tappeto l’ascoltatore, anticipando in buona parte l’acid-hard degli anni ’90 (riascoltate i primi e migliori Kyuss, e dite se non trovate delle affinità).
Lo stesso anno, tra un tour e l’altro, c’è il tempo di far uscire in autunno un EP (la band manterrà da qui in poi l’abitudine di intervallare gli album con uscite sulla media distanza), Bottom Feeders, che vede la sostituzione di Tesluk con John Von Feldt al basso e allinea un poker di eccellenti brani autografi e due cover: il deflagrante blues apocalittico Ain’t That Loving You Baby a firma Jimmy Reed e una Rocket U.S.A. che salda definitivamente il debito con la new wave.

Nel 1988 è la volta del "difficile terzo album", In The Spanish Cave, dal titolo programmatico e dalla splendida copertina che cita ironicamente i Grateful Dead...: lo caratterizza un ritorno alla solarità, sempre passata attraverso la lente seppiata tipica di Mr. Kyser.
Dalle malinconiche e struggenti Timing e July ai sussulti ritmici frenetici di Elsie Crashed The Party e di Mr. Limpet, la cupezza dell’album della Testa di Luna lascia il posto a una maggiore esuberanza, anche a una più pronunciata libertà espressiva al di fuori di un canone ormai consolidato. Ne sono testimonianza il lungo blues sotto sedativi di Astronomy, il maelstrom in moviola It’s OK (futuristico crash di Hawkwind e Mad River) e la strepitosa Red Sun, che su un infuocato riff chitarristico fa apparire dal nulla fiati mariachi, seppellendo i Love di Forever Changes con una colata lavica...
La stessa Red Sun intitola l'EP pubblicato in autunno: presenti la title-track in un'ipnotica versione acustica, e le cover di Town Without Pity (Gene Pitney!), They’re Hanging Me Tonight (Byrds meet new wave.), del tema di The Man With The Golden Gun (James Bond con Roger Moore a metà anni '70) e l'immensa, al contempo epica ed estatica, Some Velvet Morning di Lee Hazelwood e Nancy Sinatra. In the Spanish Cave rappresenta il momento in cui i Thin White Rope chiudono la prima fase della loro carriera: rispecchia fedelmente un suono che, mentre si erge alla statura di classico, è allo stesso tempo superato dai suoi artefici, che non intendevano riposare sugli allori.
Alcune cose stavano cambiando, con nuove opportunità che i TWR avrebbero saputo cogliere in pieno.


Attraversando la frontiera

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo, a coronamento di un processo già lentamente avviatosi in precedenza, le major iniziano a interessarsi a quelli che all’epoca si soleva definire gruppi "indie" e a metterli sotto contratto. Nel 1987 Husker Du firmano per Warner, di lì a poco li seguiranno i R.E.M. e nel momento in cui Sonic Youth e Meat Puppets fanno il grande salto, tocca anche ai Thin White Rope.
A interessarsi a loro è la Bmg, che su licenza Frontier (il cui marchio continua comunque a comparire), li prende in casa per due dischi che porranno la parola fine all’epopea Thin White Rope. Sack Full Of Silver (in formazione entra Matthew Abourezk al posto di Becker alla batteria: il cambio si fa sentire nella maggior stratificazione ritmica) vede la luce nel 1990 smentendo gli scettici, zittiti di fronte a un ennesimo superbo disco.
Per certi versi continuazione solo apparentemente più rilassata di In The Spanish Cave, quasi solare a tratti (nel country alla Cash maturo di On The Floe, nel medley Americana/The Ghost – quest’ultima praticamente una cover non accreditata del traditional Amazing Grace), ha dalla sua una produzione più lucida dei predecessori che esalta la compattezza e la ricercata articolazione dell’insieme.
Il trittico di atmosfere ora acide e psicotiche, ora rilassate e sottilmente oppressive di Whirling Dervish, Triangle Song e Diesel Man è stordente e stratificato viaggio mentale. Memorabili anche Yoo Doo Right dei Can (scorciata di un terzo rispetto all’originale e ritmicamente più swingante) e la title track, sospesa tra aromi folk e allusioni jazzate (chiudendo il cerchio, molto prossima a She Brings The Rain...).
Quella dei Can è la prima cover a comparire su un LP dei Thin White Rope. Interamente composto di riletture di brani altrui è invece il mini Squatter’s Rights, pubblicato nel 1991 dopo un lungo tour mondiale che tocca anche la Russia.
Squatter’s Rights raccoglie brani registrati in due separate sessions: il classico Caravan di Duke Ellington fatto nervoso ma pure lineare, una Film Theme degli Avion Travel (eh? sì avete letto bene...) che più onomatopeica non si potrebbe, la diddleyana Roadrunner (blues post atomico) e tre brani dei ’60 (May This Be Love a firma Hendrix e le Byrdsiane Everybody’s Been Burned e I Knew I’d Want You) attraversati da una spiccata malinconia, braci che covano sotto la cenere.

La giocosità a tratti riscontrabile nel mini si fa distaccato cinismo nell’album che segue, nell’autunno dello stesso anno. The Ruby Sea è congedo di valore ma un po’ sottotono per gli standard cui eravamo abituati (leggete come Kyser parla di quel periodo: lo scioglimento di lì a due anni non poté che essere la logica conseguenza). Significativo della crisi incipiente il fatto che i brani più interessanti siano quelli che mettono in mostra un leggero scarto rispetto al tipico suono Thin White Rope.
Ispirato al contrasto tra mare e terra, cupo e segnato da rassegnazione e rabbia repressa, il disco alterna brani monolitici a momenti acustici talora nevrotici, più spesso distesi.
Alla prima categoria appartengono la title-track, Tina And Glen (presente anche sul primo demo del 1985) e la martellante The Fish Song.
L’accorato duetto di Up To Midnight (legato alla successiva, infuocata Hunter’s Moon), il country-blues corale di Bartender’s Rag, la soffusa Christmas Skies parlano una lingua più riflessiva e sono probabilmente anche gli episodi più riusciti.
A mezza via tra i due estremi si collocano Puppet Dog, contrasto di linearità e squarci chitarristici inzuppati d'acido, così come Midwest Flower e The Lady Vanishes.
Val la pena di ribadire che di tutt’altro che un brutto disco si tratta: su di lui pesa però una certa mancanza di brillantezza in fase compositiva e il venire dopo una serie immacolata di capolavori.
Verso la fine del 1991 viene dato alle stampe un 7" per il Singles Club della Sub Pop, contenente una devastante, fumigante versione di Little Doll (registrata tre anni prima in Germania) e un brillante apocrifo stoogesiano intitolato Ants Are Cavemen.


Il ritorno a casa...

Dopo, il diluvio. Un altro esteso tour nel 1992 (annata priva di uscite discografiche rilevanti), il gruppo in stallo, stanco di proseguire.
Puntuale giunge nel 1993 la comunicazione che la corsa è finita, suggellata però da un meraviglioso doppio live registrato a Gent in Belgio. The One That Got Away, concepito come una sorta di retrospettiva ordinata quasi cronologicamente, offre quasi due ore di melodie e chitarre a strappare stelle dal cielo (bonus due cover irreperibili altrove: il traditional Wreck Of The Ol’ 97 e – sorpresa, ma mica tanto - Silver Machine degli Hawkind).
Da avere, come la raccolta di "ritagli e frattaglie" Spoor, edita l’anno successivo, non solo perché permette di recuperare l’intero EP Red Sun e il singolo su Sub Pop senza svenarsi, ma anche per tre estratti dal famoso demo di dieci anni prima (con una splendida Here she comes now dei Velvet Underground). Completano il riordino degli archivi disparate cover (le divertenti e divertite Outlaw Blues di Bob Dylan e Burn the flames di Roky Erickson, una scintillante Eye dei chicagoani Poster Children) e una schizzatissima versione dal vivo di Moonhead ribattezzata Skinhead.
Dissolvenza. I riflettori dello show business sono ormai puntati altrove, mentre spuntano gruppi che portano con sé un po’ della sabbia sparsa dalla sottile corda bianca.
A sorpresa, a inizio del nuovo millennio Guy Kyser rispunta fuori con un nuovo progetto dal nome Mummydogs, artefici di un buon album omonimo, per nulla da "reduce". Tracce indelebili del suono che fu lo pervadono, a sottolinearne l’attualità estrema.
Ho sempre nutrito ammirazione per il Signor Kyser, che va al di là dell’aspetto meramente artistico: vi è in lui una profondità di riflessione non comune, non disgiunta da ironia e – ogni tanto - un disincantato sarcasmo, specialmente quando si volge indietro, con rara modestia, al suo passato.
Tutto ciò traspare a più riprese dall’intervista che funge da corollario a questo articolo, ma a mo’ d’ esempio e finale, vi regalo un suo impagabile commento dalle note di copertina di The One That Got Away: "Ho fatto un sogno in cui, mentre stavamo masterizzando l’album dal vivo, sentivo una ragazzina parlare di fianco al banco del mixer. Durante la cigolante coda chitarristica di Yoo Doo Right diceva: Mamma, questo suona come delle capre. Un ringraziamento particolare a tutti coloro che hanno veramente detto che il nostro suono gli ricorda le capre."



DISCOGRAFIA

1) Exploring The Axis LP/CD (Zippo-Demon/Frontier) 1985
2) Moonhead LP/CD (Demon/Frontier) 1987
3) Bottom Feeders MLP (Frontier) 1987
4) In The Spanish Cave LP/CD (Demon/Frontier) 1988
5) Red Sun 12" EP (Demon) 1988
6) Sack Full Of Silver LP/CD (Frontier/Bmg) 1990
7) Squatter’s Rights MLP/MCD (Frontier) 1991
8) The Ruby Sea LP/CD (Frontier/Bmg) 1991
9) Ants Are Cavemen/Little Doll 7"(Sub Pop) 1991
10) The One That Got Away 6-28-92 Gent 2LP/2CD (Frontier) 1993
11) Spoor CD (Frontier) 1994
12) When worlds collide CD (Birdcage) 1994


Note:
L’edizione in CD di 1) contiene anche 3). Il CD di 4) ha un brano in più rispetto al vinile. 5) e 9) sono contenuti integralmente in 11). 10) è un live.11) raccolta di rarità, demo e inediti.12) raccolta senza inediti.


Intervista a Guy Kyser (Febbraio 2005)
Desidero ringraziare Guy Kyser per ovvi motivi, lo staff della Frontier Records - in particolare Lisa Fincher - per l’estrema gentilezza e disponibilità. Sul sito dell’etichetta (www.frontierrecords.com) è possibile acquistare con modica spesa l’intero catalogo dei Thin White Rope.


Sodapop: Puoi raccontarci qualcosa dei primi tempi, degli inizi del gruppo?
Guy: Incontrai Joe Becker nel 1979, poco dopo essere arrivato a Davis per andare all’università. Stava in un gruppo chiamato Alternate Learning con Scott Miller, e avevano fatto un singolo che mi piaceva. A un concerto di Iggy Pop mi presentarono Joe che, più tardi la stessa sera, finì per fare a botte con Iggy sul palco....
Mi ritrovai in una band con Joe e Scott: The Lazy Boys. Scott e io cantavamo, e facemmo parecchi concerti a Sacramento e a San Francisco nei due anni successivi. Alcune canzoni dei Thin White Rope (Down In The Desert, Disney Girl, Soundtrack) sono state scritte in quel periodo.
Scott se ne andò nel 1982 (per formare i Game Theory, N.d.T.) e io e Joe passammo l’estate a cercare dei musicisti. Dopo un paio di false partenze trovammo Roger Kunkel e Kevin Staydohar, che suonavano già assieme. Penso che il nostro suono si formò piuttosto in fretta dopo il loro arrivo: registrammo un demo in inverno, cui seguirono concerti in primavera. Principalmente suonavamo in una pizzeria chiamata Fat Fonzie e al Galactica 2000, una disco a tema spaziale. Roger era troppo giovane per bere, così dovevamo passargli la birra sotto il tavolo.
Joe e Kevin ci lasciarono nel 1983 per entrare in un altro gruppo (i True West, N.d.T.), così passammo un’ennesima estate senza un vero gruppo...io abitavo da solo in un vecchio hotel vicino ai binari della ferrovia di Davis, e fu lì che iniziai a scrivere più canzoni con tematiche western e country. Facemmo un po’ di audizioni, alcune delle quali con gente davvero strana (un pianista elettrico, un batterista jazz, un biker con tenaglie al posto delle mani...) e alla fine il nostro amico Steve Tesluk acconsentì a lasciare la chitarra per passare al basso. Eravamo ancora senza un batterista: facemmo un paio di concerti usando una scassata drum machine, finché l’ex batterista dei True West Frank French ebbe pietà e si unì a noi per qualche tempo.
Con questa formazione registrammo un demo, diciannove canzoni in un giorno, che iniziò a girare.
Joe tornò - mi sembra - nel 1984 e ricevetti una chiamata dalla Frontier la settimana in cui mi laureai.
S: Quali erano le maggiori influenze musicali di quei giorni? Concordi che lo stile dei Thin White Rope fosse già perfettamente definito già dal primo disco, per poi procedere con piccoli ma significativi aggiustamenti?
G: Mi piacevano Stooges e Velvet Underground e tutti quei gruppi di garage-punk acido degli anni ’60. Siccome quella era la musica che volevamo sentire ma non c’erano in giro molti gruppi che la suonavano, ce la facemmo da soli.
Ogni membro contribuiva coi suoi gusti e il proprio stile, e si è un po’ evoluto per conto suo, per cui...sì, continuavamo a fare aggiustamenti. Roger mi fece avvicinare di più al country... John Von Feldt era per la semplicità, Matt Abourezk invece un patito dei ritmi complicati.
S: Credo che l’originalità del suono dei Thin White Rope risiedesse nell’unire il suono californiano acido dei Sixties con influenze di gruppi new wave del decennio successivo (i Television quella più evidente), mentre il country faceva da sfondo a questo incontro.
Ciò vi rendeva diversi da altri gruppi delle frange più revivaliste del "Paisley underground", nonché freschi all’ascolto ancora oggi. Che ne dici?

G: Prima di scoprire gli Stooges e il resto ascoltavo Big Brother & The Holding Company, Ramones e Sex Pistols, quindi hai azzeccato. Molti dei gruppi della scena di L.A. dell’epoca si rifacevano al country – per esempio Green On Red, i Dream Syndicate tardi – quindi non eravamo soli. Credo che ciò che ci rendeva un po’ diversi fosse che lavoravamo tantissimo sugli arrangiamenti per quanto riguarda l’interplay delle chitarre, a volte studiando ogni nota di basso (ecco probabilmente da dove viene il paragone coi Television).
Questo ci ha portato a creare delle cose interessanti, mentre altre volte faceva letteralmente impazzire il resto del gruppo: sono contento che tu ci trovi ancora freschi.
Penso che l'approccio improntato all’arrangiamento fosse un aspetto dei Thin White Rope che alcuni non gradivano... a qualcuno piace di più un suono più libero, basato sulle jam... credo che abbiamo provato a fare pure quel tipo di cose, in alcune canzoni.
S: In Moonhead c’è una fotografia con una chitarra in cima a una specie di tomba fatta con delle pietre. Era forse un rimando ironico alla cosiddetta "morte del rock" degli anni ‘80 (in cui i gruppi con sintetizzatori sembravano rimpiazzare quelli con le chitarre) ?
Allo stesso tempo voi e altre band americane stavate creando alcuni dei migliori dischi del periodo basandovi sul suono chitarristico, a volte reinventandolo...

G: Alcune cose assumono dei significati nel tempo, guardandosi indietro. All’epoca pensavamo semplicemente che fosse una bella fotografia con un paesaggio desertico e una chitarra.
Non ho mai considerato i sintetizzatori una minaccia: sono anch’essi strumenti musicali e possono spaccare (pensa ai Suicide!). La minaccia maggiore, ora come allora, è rappresentata da MTV... Poveri i ragazzi di oggi, non sanno proprio come si ascolta la musica...
S: Pensi che il fatto di venire da una città decentralizzata possa aver avuto importanza? Essere lontani dai centri dell’industria musicale come New York o Los Angeles vi aiutò ad essere distaccati dalle mode, liberi di creare uno stile originale ?
G: Senza dubbio. Ad ogni modo non ci siamo mai interessati di essere al passo con le mode, perciò era facile tenerle lontane essendo un po’isolati.
Elsie Crashed The Party parlava anche di questo: "We have chosen to stay out of the war" ("Abbiamo scelto di restare fuori dalla guerra" N.d.T.).
A Londra abbiamo potuto vedere da vicino la creazione delle mode: il NME e il Melody Maker si contendevano i nomi da pompare... una rivista sceglieva un gruppo, cercava di creare loro un po’ di rumore intorno per poi parlarne male la settimana seguente... era una cosa chiassosa, una manipolazione artificiale a scopi commerciali, e pesava su piccole band come noi che cercavano di crearsi una base di fan.
S: Ho sempre pensato che la presenza del deserto fosse molto tangibile nella vostra musica, evocando atmosfere o chiamandolo in causa direttamente nei testi.
Cosa rende il deserto così affascinante? Io lo vedo come una specie di specchio, un negativo della nostra vita civilizzata che suscita una riflessione...

G: Sai, questa faccenda del deserto diventò una specie di predisposizione... sempre la prima domanda nelle interviste, la prima cosa che tutti notavano... Ho il sospetto che parecchia gente non si dava la pena di ascoltare i Thin White Rope per questa reputazione che ci precedeva: "Sono un gruppo desertico... suonano musica del deserto..." Dava l’impressione che fossimo un gruppo limitato o poco ricercato.
Abbiamo impiegato molte immagini naturali nelle nostre canzoni, non tutte aride – abbiamo visitato colline, oceani, iceberg, stelle, pianeti, allevamenti di formiche e via dicendo.
Ora che ci penso, usavo spesso queste ambientazioni per dare un senso di isolamento.
S: Molti personaggi delle tue canzoni sembrano essere in qualche modo disturbati, sul punto di fare qualcosa di folle, o avere delle rivelazioni.
L’anormalità è un punto di vista più interessante anche nella letteratura: l’arte parla della vita reale e non è semplice evasione...

G: Ora sono più interessato a persone normali inserite in situazioni insolite. La storia di come una persona comune reagisce o può cambiare è più utile che shockare con un monodimensionale, spaventoso pazzoide.
Nondimeno, mi piace l’idea dei personaggi sull’orlo di una qualche rivelazione: la sensazione in cui si inizia a capire qualcosa è una delle cose che preferisco di più nella vita, e mi piacerebbe pensare di averla comunicata in qualche modo.
Di sicuro all’inizio avevamo almeno un paio di canzoni sulla follia, ma nel tempo ho lasciato perdere questo argomento. Un’altra di quelle cose che divennero parte della reputazione che sembravamo portarci appresso. Più tardi, quando cercavo di scrivere canzoni più profonde – che so, sull’invecchiare o sull’amicizia- o semplici canzoni divertenti senza molte pretese, tutti pensavano che parlassero di assassini. Chi recensiva ci ricamava sopra, tutti si superavano nell’evidenziare quanto spaventosi o deprimenti fossero i nostri album.
Risultato: potenziale di vendita -273 e in aumento.
Con una certa riluttanza, ti garantisco che non era del tutto colpa di chi recensiva ... un po’anche delle canzoni... "Ecco un caso di incomprensione!"
S: Com’è vivere – ed essere un artista – negli Stati Uniti di Bush Jr. (ho promesso di non far più questa domanda a cittadini americani, ma sembra essere inevitabile...) ?
Può l’arte essere utile per migliorare la situazione ?

G: Questa nazione si è a tal punto frammentata in fazioni culturali restie ad accettare informazioni provenienti dall’esterno (ad esempio la maggior parte dei sostenitori di Bush si è rifiutata di vedere Fahrenheit 911), che non credo l’arte possa raggiungere la gente che più ne avrebbe bisogno. Per di più gli americani generalmente non hanno rispetto per artisti che non siano ricchi e di successo.
S: Sbaglio o canzoni come The Real West, Dead Grammas On A Train, Bartender’s Rag sembrano essere un’analisi cinica dei falsi miti del West, più che esprimere nostalgia per i "good old days" della retorica?
G: Beh, la mia analisi era in ritardo di trenta o quaranta anni. Lo smantellamento del Vecchio West iniziò negli anni ‘50 (Mezzogiorno Di Fuoco, Johnny Guitar, poi Sam Peckinpah e Sergio Leone), prima ancora che si fosse finito di costruirlo!
S: Conosci i western di Sergio Leone? Un po’ della vostra musica non vi sarebbe stata per nulla fuori posto...
G: Il mio film preferito in assoluto è C’era Una Volta Il West. Che sorpresa, eh?
S: Qual’è stata la ragione dietro lo scioglimento dei Thin White Rope? Sembravate avere ancora nuove terre da esplorare. Parlami – se ti va - dell’ultimo periodo.
G: Per prima cosa sembrava che la nostra carriera fosse in fase di stallo. Eravamo stati in giro per tre o quattro anni senza riscontrare significativi miglioramenti nelle vendite o nei tour; il nostro pubblico in alcune zone sembrava diminuire. Persino nel nostro periodo migliore, quando stavamo in tour per sei o sette mesi all’anno, non riuscivamo a tirare fuori abbastanza soldi dai concerti e dalle vendite dei dischi per riuscire a pagare l’affitto. E’ spiacevole, ma questo è il lato crudo e pratico del business... non mi sto lamentando, è solo che il gruppo non stava più in piedi finanziariamente, e si può immaginare come ciò contribuisse ad aumentare le tensioni interne.
Musicalmente, io e il resto del gruppo stavamo andando in direzioni diverse: ero stufo dei lunghi assoli di chitarra e dei macelli di feedback che facevamo a ogni concerto. Volevo cercare un suono più semplice, più stratificato e potente...non ero sicuro di come ci sarei arrivato... per cui negli ultimi tre o quattro anni divenni una specie di "sergente di ferro", lavorando ancor di più sugli arrangiamenti lasciando agli altri sempre meno spazio per contribuire. Questa situazione fu pesante specialmente per Roger, visto che le parti di chitarra erano il suo maggior sbocco creativo.
In aggiunta, lavoravamo molto suonando e risuonando, il sistema "prova ed errore"... arrivavo con del materiale, ci stavamo sopra come dei matti per un paio d’ore, non funzionava... così il cambio di stile a tratti era stancante e doloroso per tutti.
Per quanto mi riguarda avevo finito le idee e l’energia, ero stanco di tirare la carretta.
Non avevo canzoni promettenti e non ve n’erano nemmeno di vecchie che fossero ancora inedite. Questa era la situazione dopo aver finito The Ruby Sea all’ultimo minuto (per dare una scossa all’entusiasmo dovetti lasciare la città senza dire niente a nessuno e rintanarmi in un motel per una settimana. Per motivi che ora non ricordo, era molto importante che gli altri non sapessero dove fossi. Pensavano che avessi i miei buoni motivi per sparire. Può essere che mi stessi comportando da stronzo, facendo il prezioso, ma sai come sono i cantanti...)
Poi ci fu un lungo momento di stanca nella striscia di successi... ogni prova iniziava col gruppo che diceva "Allora... hai qualche pezzo nuovo?" Tiravo fuori delle cose, monconi di canzoni, ma presto persi interesse quando non si riusciva a farle funzionare.
Ripensandoci avrei dovuto suggerire di prenderci una pausa di un anno o due... avremmo potuto ricaricare le batterie.
S: Dei dischi dei Thin White Rope, qual’è quello che credi sia il più rappresentativo o quello che è davvero venuto come lo volevate?
G: Moonhead è il migliore dei "primi" Thin White Rope", quello più vicino alla "psichedelia heavy-metal da muro del suono" che cercavamo di fare al tempo.
Sack Full of Silver è il miglior disco dei Thin White Rope "maturi": arrangiamenti tortuosi (Whirling Dervish), suoni più acustici e alcune delle cose stratificate cui puntavo (Diesel Man). Ha anche un bel feeling rilassato – non nel senso che faccia dormire - , si sente che ci trovavamo bene a suonare.
Ad essere onesto, faccio fatica ad ascoltare i nostri dischi: riesco a sentire solo gli errori, specialmente nei testi e nel cantato.
S: Ti ci sono voluti quasi dieci anni per fare un disco con un gruppo nuovo. Perché? Sentivi il bisogno di allontanarti il più possibile dalla musica ma il suo richiamo è stato alla fine così forte e inevitabile da richiamarti?
G: Mi piace quello che hai scritto... posso copiarlo per rispondere?

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