Solbakken - Zure Botoa (Hooverflag/Konkurrent/Wide, 2000)

Klaas Schippers (basso) ed Empee Holwerda (chitarra) sono i membri fondatori di questa band olandese che giunge con Zure Botoa alla fatidica tappa del terzo disco. I due cantano con voci ben diverse, che si alternano e si intrecciano piacevolmente: una più tipicamente 'american slowcore', tra Lou Reed, Kadane brothers (Bedhead) e Bill Callahan (Smog); l'altra più 'retro', somigliando a Jim Morrison, Mark Edwards (My Dead Is Dead) o Ferghal McKee (Whipping Boy), ma soprattutto ad Ian Curtis: da qui la sensazione di ascoltare dei redivivi Joy Division adeguatisi ai nuovi canoni musicali... Sebbene si sia detto da più parti di forti somiglianze con i Three Mile Pilot (con i quali certo esistono affinità in quanto a lentezza e malinconia, d'altronde sono state entrambe support-bands dei Black Heart Procession), i Solbakken sono più tradizionalmente indie(tro) e meno propensi ad evoluzioni in ambienti 'post'. Il loro suono è puro indie rock dalle atmosfere drammaticamente cupe e debitrici certamente alla new wave, con basso e voce in grande evidenza a descrivere una depressione e una tristezza diffuse, evidenti anche nei testi, incentrati sui temi della morte e del dolore (memorabile in questo senso la cantilena disperata di Inflict More Pain, ma anche il refrain "Blood is the only thing that's real" di Intellectual Friend non è male). Non è difficile individuare le influenze musicali della band: la new wave inglese con i suoi strascichi come già detto, con riferimento soprattutto ai Whipping Boy (ascoltare in particolare il quasi-plagio dell'iniziale Our Saint, evidente specie nella parte dalla voce recitata); ma anche fondamentali indie lo-fi e slowcore kings quali Sebadoh e Bedhead; evidente l'insegnamento dei primi nel refrain di Intellectual Friend, ma ancora più chiaro quello dei secondi nel corso dell'intero lavoro: chitarre malinconiche, tristi, ma spesso ruvide e (moderatamente) rumorose (l'inquietante Small Margin), che trasportano la band da melodie più smaccatamente indie a sporadiche intrusioni melanconiche ai margini del post-rock, il tutto con la semplicità di un suono genuino, schietto, forse 'povero', sicuramente reale, che sa appassionare. Sospeso tra vecchio e nuovo, tra differenti maniere di esprimere sofferenza, difficoltà o disagio, questo disco piacerà certamente ai più romantici, restando comunque indubbiamente un disco minore: ma un gradevolissimo disco minore.

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Solbakken - Klonapet (Hooverflag/Konkurrent/Wide, 2003)

"Our hope's like a lost little girl that jumped into the car of a stranger/our hope for the better is like a lost little girl (...) His evil was carefully planned, evil's always better prepared/his evil was carefully planned/and we never heard how she died": così cantavano gli olandesi Solbakken in Former Ghostrider, rendendo nota la loro tetra visione delle cose. Col quarto album ben poco sembrerebbe cambiato: stessa spartana confezione in cartoncino riciclato, a contenere le stesse composizioni funereo-depresse cui eravamo abituati (e, per la verità, affezionati)... Vocione cupo, testi tristissimi, atmosfere gelide. Eppure qualche differenza c'è. Un buon inizio (Entertain The Elderly), un'armoniosa cavalcata (Florence Roadmap), qualche scossa elettrica (Space Bordello), crescendo emozionanti (Dung), dolci interventi femminili (Relaxing Yourself To Death), intensità palpabile (la splendida Love Interest), momenti esplorativi (l'inquieta, strumentale Mickey), organo e violino (la drammatica House Been Taken), il fantasma di Lou Reed in versione sonica (Small And Evil Hole), ed una degna chiusura: et voilà, il disco è finito. Di già?! Mi accorgo allora che il CD scorre veloce, è meno pesante e ripetitivo del precedente, maggiormente d'atmosfera e non più limitato a nostalgici territori new wave; insomma, si capisce che il tentativo della formazione è quello di ampliare i propri orizzonti, pur restando nell'ambito delle proprie conoscenze musicali. E quasi quasi si riesce addirittura ad intravedere un briciolo di speranza nel grigio delle liriche, come sempre originali e validissime ("Love should make it right/after a long day/of messing up each other's lives"). D'altra parte, però, si avverte l'assenza di brani memorabili ed immediati come ve n'erano in Zure Botoa, dandoci la sensazione che la band nella sua ricerca abbia perso momentaneamente la rotta; che invece di compiere passi indietro o in avanti, insomma, si stia guardando attorno confusa. In sintesi, comunque, chi ha apprezzato un gruppo come gli Interpol non avrà grosse difficoltà a gradire anche quella che potremmo vedere come una loro versione più grezza e 'sotterranea'.

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