Seam

Non so se riuscirò perlomeno a sembrare obiettivo e "super partes" al 100%, comunque giuro che ci ho provato…Thanks a lot: Rockerilla, Rumore, Dynamo!, NME, Melody Maker, che mi hanno dato indirettamente una mano.

Originari di Chapel Hill (e successivamente trasferitisi a Chicago), i Seam "fondono in modo sublime il pop con il noise", come recitava una originalissima (!) pubblicità qualche tempo addietro. Il problema che mi si pone, dunque, sarà di spiegare che cosa differenzi questa band dalle altre migliaia che si occupano dello stesso processo di fusione…Tanto per cominciare, essi non raggiungono mai né la soglia del noise vero e proprio - limitandosi all’utilizzo di chitarre capaci di essere grintose, ma mai ultradistorte – né quella, pericolosa, del pop inteso come gradevole ma vuota banalità - ricercando invece con intelligenza la giusta dose di melodia necessaria a rendere la loro musica dolce oltre che ruvida. In questa libera e personale ricerca – nota, chissà perché, a pochi cultori – i Seam rimangono una tipica indie band degli anni ’90, così come lo sono ad esempio gli amici Superchunk (assieme ai quali hanno girato in tour) o i similari, giovanissimi Urusei Yatsura. Ciò che li rende così particolari, però, è sicuramente il loro cosiddetto "volto umano" (definizione terribile), che si esprime nella grande intensità, poeticità, drammaticità di molti brani; per questo la loro musica non si risolve in banali schitarrate grunge, né in graziosi ma inutili motivetti pop, bensì si compone nelle misure più perfette di rumore e melodia, aggressività e grazia, irruenza e dolcezza, creando così atmosfere suggestive e spesso toccanti. Quali sono queste quantità perfette? È presto detto: basta sommare pesi ed altezze dei componenti del gruppo, per ottenere "350 libbre di indie-grace e 67 pollici di acume noisy-pop", così come riportava uno sticker posto sul disco d’esordio…!!! In realtà, tutto è basato su equilibri e proporzioni ben studiate – senza per questo perdere di spontaneità - , su una cura attenta all’impiego di energia e tensione, che punta alla costruzione di un’armonia. La musica che viene a crearsi è, di norma, piuttosto triste e romantica, quasi depressiva; è lo stesso Sooyoung Park, leader della band, ad ammettere: "Non so perché scrivo canzoni così tristi, forse è perché riesco a trovare ispirazione solo nei momenti di tristezza". Se non vi bastano le stranezze, oltre a quello di Sooyoung (di origine coreana) non è da meno il nome stesso della band, acronimo che significherebbe Show Everyone A Microdemonstration (o, secondo altri, Strapping East Asian Men…)! Spero di aver suscitato in voi abbastanza curiosità da seguirmi ancora per qualche riga.



Discografia

Album (distribuiti in Europa dalla City Slang): Cd single ed EP:
  • Days Of Thunder 7'' (Homestead, 1991)
  • Granny 9x 7'' (Merge, 1992)
  • Kernel EP (Touch And Go, 1993)  
  • Hey Latasha (Touch And Go, 1995)
Partecipazioni, rarities:
  • Decatur (da Headsparks) compare sulla compilation Slanged! (City Slang, 1992)
  • This Ain't No Picnic (cover dei Minutemen) compare su Our Band Could Be Your Life: A Tribute To The Minutemen (Little Brother, 1994)
  • Hey Latasha (da Are You Driving Me Crazy?) compare sulla compilation Ear Of The Dragon (Fortune5, 1995) e come 7'' (Chè, 1995)
  • Your King compare sulla compilation Ear Of The Dragon e I Thought I Did sul 7'' Magic Eye Singles#3 (Magic Eye, ?), entrambi brani inediti del side-project di S.Park denominato Team Xiaoping
  • The Prizefighters (da The Pace Is Glacial) compare sulla compilation The Lounge Ax Defense And Relocation CD (Touch And Go, 1996) in una versione differente, e come 7'' (Ajax, 1997)
  • Sukiyaki (Ajax, 1999)

Conclusa l’esperienza con i Bitch Magnet (powertrio che, sul finire degli anni ’80, aveva realizzato alcuni albums – Star Booty, Umber e Ben Hur – abbastanza ostici ed agitati), Sooyoung Park forma nel 1990 i suoi Seam. Oltre a lui, che si occupa di voce e chitarra, il trio originario è composto da Lexi Mitchell (proveniente dai Codeine) al basso e da Mac McCaughan alla batteria. Il loro primo album, Headsparks, viene salutato dal Melody Maker come "il primo disco del post-Pavement". Non certo di plagio si tratta, però: le due formazioni hanno caratteristiche peculiari diverse, che le rendono uniche ed originali; ma è pur vero che entrambe possiedono una stessa "capacità di coniugare pop, noise e Dio sa cos’altro senza perdere un briciolo in compattezza e freschezza", così da creare "un suono mai troppo impetuoso né eccessivamente molle". Headsparks resta il disco più ruvido e movimentato della band, che già dimostra di possedere un proprio stile ben definito: è soprattutto l’indimenticabile Decatur, che apre l’album, a dare questa sensazione; ma non da meno sono le esaltanti Grain e Sky City (che propone quei brevi inserti di guitar-solo, semplici ed emozionanti, che diverranno una caratteristica primaria del gruppo), la più lenta Feather e l’intensa cavalcata di Atari. Carina la cover di Mark Saltzman Shame, veloce e irruenta, cantata da Sarah Shannon dei Velocity Girl; senz'altro migliore New Year's, scritta assieme ai Codeine e da questi giŕ pubblicata nel loro Frigid Stars. Splendida è la copertina, di un blu rilucente e di una poeticità non certo casuale.
Cambiamenti di rilievo nella line-up portano alla realizzazione di un EP ed al secondo disco, The Problem With Me, considerato generalmente come una prova mediocre, una sorta di passo falso, ma non certo dal sottoscritto, che per alcuni aspetti lo trova addirittura superiore ad Headsparks. Fuoriuscito il buon Mac, per andare a svolgere ben altro ruolo nei Superchunk, entrano nella formazione Bob Rising (già nei Poster Children) e Craig White; da rilevare inoltre l’aiuto fornito in alcuni pezzi dall’amico Bundy K. Brown (additional guitar), una delle figure principali della scena di Chicago, già membro di Tortoise, rex e Bastro. Dietro una particolarissima copertina, anche in questo caso azzurra-blu, si nascondono diversi brani interessanti e non molto distanti dallo stile dell’esordio (importante: si cominciano a comprendere più o meno i testi, sempre personali e introspettivi), ma anche altri che sono risultati noiosi a più di un critico musicale. Dopo l’energica introduzione di Rafael, è Bunch ad esemplificare lo stile discontinuo della band, basato sulla successione di parti lente e delicate (spesso accompagnate da una voce simile a un sussurro, vedi la splendida Road To Madrid) e parti più rumorose e violente. Direte: non è uno stile molto originale, l’hanno già usato i Nirvana! Ma non è esattamente così: i Seam reinterpretano quello stile in maniera diversa e personalissima, così che nella loro musica vi è meno violenza e sfogo e più trasporto emotivo, meno rabbia e più sensibilità. Non sembra dunque particolarmente strana la definizione della band come "dei Codeine più vivaci" (Bussolino, Rockerilla), con la quale si sottolineano proprio le caratteristiche fin qui descritte. Brano migliore dell’album è senza dubbio Dust And Turpentine, in cui spiccano quegli inserti intensissimi di guitar-solo cui accennavo parlando del primo disco; ma anche Something’s Burning è molto stimolante, e la lenta, pacata, uniforme chiusura di Autopilot non è da sottovalutare.
Non essenziale nella discografia della band è invece il succitato Kernel EP, che può risultare interessante più che altro ai collezionisti. Al suo interno troviamo quattro pezzi: bella la title-track, sognante e melodicissima, perfetta pop song dal guitar sound sporco e ruvido ma dolce, con la voce a descrivere delicata le solite sensazioni di inadeguatezza ed ipersensibilità ("I am scared/I am crazy..."). Sweet Pea è proposta in una versione più grezza rispetto a quella su The Problem With Me, meno pulita dunque, ma comunque efficace. Ben diversa dalla versione iniziale è invece Shame, tanto carica e irruenta sull'esordio quanto qui invece lenta, sussurrata, fin troppo melodiosa. Lenta ma ritmata è infine la gradevole cover dei Breaking Circus (band fine anni '80 su Homestead/Twin Tone) Driving The Dynamite Truck, capace di crescere d'intensità e di volume sino a permettere perfino a Sooyoung Park di urlicchiare!
L’incommensurabile grandezza dei Seam si rivela compiutamente solo con la terza difficile prova: Are You Driving Me Crazy? è un disco di rara bellezza, capace – grazie anche ad una registrazione migliore, che permette un suono più pulito – di esaltare, appassionare e commuovere. Cambia la line-up in maniera netta e definitiva (Chris Manfrin, William Shin e Reg Shrader sono i nuovi compagni di Sooyoung Park), ma non cambia la musica: stesso suono rallentato, stesse melodie indovinate, ed emozioni sempre più forti. Eppure, anche questo disco non è stato ritenuto convincente da molti; mentre alcuni sottolineano con (moderato) piacere il ritorno ai livelli di Headsparks, altri si preoccupano unicamente di ironizzare su di esso, spesso parlando, a mio parere, senza cognizione di causa: vedasi il New Musical Express, che liquida il lavoro della band come "un album così-così" caratterizzato dalla "totale assenza di melodie memorabili" (mi chiedo se l’abbiano davvero ascoltato), o il Melody Maker, che esprime preoccupazione per la "piega sentimentale" che avrebbe preso questa ex-indie rock band, che ora parrebbe assomigliare addirittura ai R.E.M. Ciò che posso dire è che si tratta semplicemente di un disco meno grezzo dei precedenti, più elaborato e meglio curato sotto ogni aspetto; un disco in cui i Seam possono dare il meglio di sé, raggiungendo la perfetta combinazione tra armonie pop e feedback, noise, distorsione. Il Melody Maker, scrivendo di presunte discese nel patetico, si riferisce agli episodi più lenti e tristi, in cui in effetti – complice il violino di Julie Liu (rex, Tortoise, Songs:Ohia) – ci si lascia andare un poco al sentimentalismo (Rainy Season); ma, a parte il fatto che non si tratta di "pathos tragico da far vomitare", per la maggior parte del disco si ascolta comunque un ottimo guitar sound, pieno di vitalità e di sicuro trasporto emotivo. Altro che delusione, altro che cadute di tono! L’album è un piccolo capolavoro in cui si stenta a trovare una canzone migliore delle altre: da Berlitz a Petty Thievery, passando per il singolo Hey Latasha, la superba Port Of Charleston e la toccante Sometimes I Forget, è tutto un susseguirsi di forti emozioni. L’utilizzo del ben noto metodo "un po’ piano / un po’ forte" (ossia "verso dimesso / ritornello power-pop") non può spingermi a svolgere critiche, dato che la sua applicazione – peraltro non così banale – provoca proprio quelle emozioni che sono il fine di tutta la musica. Se amate l’indie rock in genere, siete magari un po’ romantici e avete un debole per le chitarre malinconiche, questo è il disco che fa per voi.
Dal momento che non si può superare la perfezione, The Pace Is Glacial non riesce a raggiungere i livelli del precedente, pur proponendo ottimi pezzi, generalmente vicini al sound di sempre, ma forse tendenzialmente meno tristi e sognanti.
Rimandandovi alla recensione a parte, faccio solo notare come stavolta, per la prima volta, la copertina non sia di color bluastro (lo è invece il CD vero e proprio) ma resti tuttavia sempre eccezionale, evocativa, sposandosi perfettamente con il mondo sonoro di una band unica, capace di regalare ancora grandi suggestioni musicali, ricche di poesia e di idealismo.


In rete: The Official Seam Fanpage, il sito semiufficiale.

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