Ty Segall + JC Satan – 02/11/2014 Interzona (Verona)

Serata post Halloween all’Interzona, con qualche reduce della sera precedente che ancora si aggira nella sala e del quale renderemo testimonianza. Ma noi si è qui soprattutto per Ty Segall, per l’ultima delle tre date italiane, un concerto che suscita molte aspettative e, inevitabilmente, anche ad alto rischio delusione.
L’ingrato compito di aprire al gettonato gruppo americano spetta al quintetto franco-italiano dei JC Satan che, al di là del confronto impegnativo, non impressiona granché: hard-blues rumoroso con voce femminile, con qualche buona idea che non si concretizza mai in canzoni degne di nota. La strada per raggiungere Lydia Lunch e la sua banda è ancora lunga e lastricata di bottiglie di whiskey. Alla fine, ciò che resta della loro esibizione non è propriamente di carattere musicale: sul palco, la comparsa di un grottesco uomo-scimmia che osserva la band standosene in disparte; sotto, l’apparizione di un curioso personaggio, una cofana alla JC_Satan_liveOrietta Berti come pettinatura e cappotto lungo con gobba incorporata, accompagnato da tre top model che neanche nei video di Robert Palmer. Ma più che Robert Palmer questo sembra un Andreotti giovane: con la sua scorta fende la folla in diagonale e sparisce ai bordi della sala. Tuttavia il meglio, sia dal punto di vista musicale che da quello dei personaggi curiosi, ha ancora da venire e in entrambi gli ambiti i Ty Segall saranno protagonisti. Se il baffuto cowboy con cappello enorme e torso nudo sotto la giacca che arringa la folla, presenta il gruppo, suona le tastiere durante il primo pezzo e si dilegua, vince la gara di originalità, nemmeno la band passa inosservata: Charlie Moothart, alla chitarra e cintura-bandoliera, sembra estratto da un documentario sulla controcultura dei ’60; il bassista Mikal Cronin è chiaramente Edward Norton con una parrucca lungocrinita; l’avvenente Rose Rose Epstein alla batteria è un incrocio fra Betty Boo e Morticia. Poi c’è lui, Ty Segall, chioma bionda, faccia da sberle e improponibile tutina celeste attillata, ben riempita per via di una leggera pinguedine. Iniziano ty_segall_live_2distribuendo al pubblico i panini avanzati dal buffet, mossa da paraculi che deve essere tassativamente seguita da un concerto senza cedimenti, se non si vuole essere ricordati solo come una band di simpatici cazzoni: la tesissima versione del brano che dà il titolo all’ultimo album mette la serata sui giusti binari e fa capire che, nonostante l’aria scanzonata, qui non si scherza affatto. Per i primi tre quarti d’ora ci viene proposto Manipuilator praticamente per intero: purtroppo Feel si perde nei consueti aggiustamenti di volumi di inizio concerto, ma abbiamo modo di rifarci con una Green Belly velocizzata e quasi irriconoscibile, che distorce il tempo e ci catapulta negli anni ’70 e una ballatona come The Singer. I pezzi sono quelli che conosciamo, con l’impatto live a renderli ancor più energici e godibili, ma questo è il meno: la cosa incredibile è che risultino digeribili anche tutti gli urletti e le schitarrate, associate a pose da guitar hero, che il leader ci propina senza risparmiarsi, quest’ultime spesso inserite a legare un pezzo all’altro. È che mr. Segall ci sa innegabilmente fare: calibra con sapienza le divagazioni e le taglia prima che diventino sbrodolature; e poi ci sono le canzoni e a uno che ne scrive di questo livello si perdonerebbe tutto, oltre a ty_segall_live_3chiedergli ene all’infinito. A conferma della cosa, il fatto che i venti pezzi della scaletta volano in un attimo, fra boogie vorticosi e feeling sudista venato d’ironia: in un corollario di pezzi senza nulla da scartare, si fanno comunque ricordare una The Crawler stoogesiana (con Cronin che imbraccia il basso come fosse un mitra) e una Thank God For Sinners che induce al ballo le prime file. Dopo il consueto rituale di saluti-urla del pubblico-ritorno sul palco, a denunciare influenze comunque piuttosto chiare, Suzie Q dei Creedence Clearwater Revival, dei quali, qualcuno fra il pubblico, indossava profeticamente la maglietta;  anche questo brano viene debitamente irrobustito, poi c’è tempo solo per un altro pezzo prima del rompete le righe. Tornando a quello che si diceva all’inizio, non solo non si è rimasti delusi, ma si è decisamente andati oltre le aspettative che si potevano avere ascoltando i dischi: quello che un live dovrebbe sempre fare.

(Con la collaborazione di Marcello Ferri. Foto di Giorgio Giunta, Elena Sauro ed Emauela Vigna)