Twelve Thousand Days – Field’s End (Final Muzik, 2020)

Il sodalizio fra i Twelve Thousand Days di Martyn Bates (Eyeless In Gaza) e Alan Trench (Temple Music) e la friulana Final Muzik si conferma fruttifero e, a due anni da Insect Silence, ci regala un nuovo lavoro, al solito complesso e ricco di spunti. Scrivendo del disco precedente, avevamo già avuto modo di notare come il progetto sia da sempre il mezzo attraverso cui Bates, autore di quasi tutte le liriche, mantiene vivo e coltiva il contatto con il suolo e lo spirito inglesi, evocando luoghi e storie che lì trovano la loro origine e ragione d’essere. Questo legame con una tradizione in continuo sviluppo – già emerso in passato nella collaborazione con Mick Harris per Murder Ballads e certificato dall’inclusione dei Twelve Thousand Days  nella monumentale compilation della Cold Spring Dark Britannica – si arricchisce con Field’s End di nuovi elementi attraverso la riproposizione di pezzi di musicisti inglesi anni  ’70, dai Black Sabbath (una Planet Caravan opportunamente epurata dai toni freak) ai folker Alasdair Clayre, Bob Pegg e Washiti Bunyan, personaggi meno noti ma non privi di interesse e meritevoli di approfondimento. Riportandoli alla luce, i due musicisti pagano certamente pegno alle proprie fonti d’ispirazione, ma lo fanno mediante una reinterpretazione che integra i brani all’interno di un peculiare tessuto sonoro fatto di folk attualizzato da pulsioni elettriche ed elettroniche che, attraversando le composizione, ne animano il corpo senza intaccare lo spirito originario, sebbene a volte appaiano chiari riferimenti agli Eyeless in Gaza (More) o alle precedenti incursioni folk-drone di Bates (la rilettura di If In Winter della Bunyan). Sotto una volta celeste popolata dagli astri evocati in Planet Caravan (e che di continuo ritornano, scandendo il succedersi dei giorni e delle stagioni), si disegnano mari, pianure, colline, monti, boschi, autostrade e torri, luoghi solo in parte immaginari. Piogge, venti e foschie fecondano questa specie di Terra di Mezzo nella quale si dispongono, in profondità, una serie di incredibili figure, dagli strani ed inquietanti esseri di Dark They Were, And Golden Eyed al cane spettrale di King Dog e poi lupi che si muovono in circolo (Wolves Upon The Plain), mandrie (Witman’s Wood), oscure pietre a forma di drago (Drakestones). Sono i protagonisti di testi che suggeriscono sempre un che di esoterico e il cui senso può cambiare man mano che, ascoltando le canzoni dell’album, si acquista familiarità coi luoghi e i personaggi o si sceglie di intraprendere percorsi d’ascolto differenti. Più vicina ai due primi capitoli della discografia che allo sperimentale predecessore ma, rispetto a loro, meno immediata e più intrigante e profonda, Field’s End è un’opera che richiede tempo e ripetuti ascolti: come in un rapporto simbiotico, entra dentro man mano che la si attraversa e sa ripagare con generosità l’impegno profuso.