Three Days Of Struggle – 22-24/04/11 Codalunga (Vittorio Veneto – TV)

Three Days Of Struggle, un nome che a qualcuno evocherà ricordi di gioventù: Two Days Of Struggle, Padova, il giro hardcore della prima metà degli anni ’90, l’impegno socio-politico, chissà quante altre cose. A distanza di anni cambiano i luoghi e i suoni, rimangono alcune persone e continua, almeno si spera, lo spirito. La quarta edizione del festival viene a cadere nei giorni di Pasqua, proprio come accadeva per l’edizione padovana che quindici anni fa portava quasi lo stesso nome: partiamo. Superato il traffico prefestivo della profonda provincia veneta, i cartelli pubblicitari anti-abortisti di gusto horror-gore e le uova di Pasqua di dimensioni godzilliane esposte fuori dai negozi, ci Lettera 22sistemiamo nel bel bed & breakfast alla periferia del paese e ci fiondiamo verso Codalunga. L’atelier è a pochi passi dalla suggestiva piazza medioevale del borgo di Serravalle i concerti si svolgono nel cortile sul retro, dieci metri quadrati stretti fra i muri degli edifici circostanti. Qui l’atmosfera che si respira è tutt’altro che antica: al nostro arrivo si sta esibendo il duo Under The Snow, drone chitarristico processato tramite laptop, ma essendoci persi l’inizio direi che è il caso di sospendere il giudizio. Ottimo invece Dominique Vaccaro che sembra lottare coi macchinari per produrre un set dall’impatto, anche visivo, molto fisico. Prima di trasferirsi presso lo Studio Vascellari, dove si terranno i restanti concerti della giornata, c’è il tempo di guardarsi un po’ in giro (purtroppo manca l’annunciata mostra di disegni di GG Allin, fermata alla frontiera dagli zelanti doganieri: che abbiaSissy Biasinno fatto l’esame del DNA all’opera Blood Shit & Cum?) e fare due parole con vari esponenti del mondo della “musica strana”, accorsi in gran numero. Nello spazioso Studio Vascellari, un vecchio capannone di medie dimensioni, la varietà della fauna è evidente: qualche metallaro, un po’ di scenster in libera uscita, qualche indie-figa da locale alternativo milanese, un po’ di gente normale, freak di varia natura, tutti eterogeneamente mischiati cosicchè, qual che sia la classe sociale che più odiate, la trovate diluita in quantità da renderla inoffensiva. Tornando alla musica, fa gli onori di casa Magic Towers, progetto di Giovanni Donadini – OttavenCanedicoda e Federico “spazz” Spasible, un lungo drone che man mano si arricchisce di trame sintetiche scaccia noia: decisamente una buona apertura. Assai più trascurabile l’esibizione della one-girl-band Modern Witch, dark-witch-house con base in playback con tipa che canta e saltella. Non è carino dirlo, ma il momento più interessante è quando la ragazza si cappotta per via della rottura di una delle assi del palco: non si fa niente e possiamo riderci su. Tocca poi a un altro solo act, ma di ben diversa fattura, quel Luciano Maggiore che di recente abbiamo ascoltato in coppia con Francesco Brasini sul CD Chàsm Achanés. Se là più di tanto non ci aveva colpito qui la riuscita è assai migliore, le vibrazioni drone decisamente più coinvolgenti e drammatiche, i tempi meglio amministrati. Unica nota negativa è che le frequenze acutissime del finale hanno sfondato i tweeter dell’impianto audio, il che penalizzerà il gruppo che segue, ovvero gli headliner della serata. La deludente prestazione del Teatro Satanico non può comunque essere attribuita alle poche alte frequenze: rispetto al gruppo ascoltato sui dischi e che un po’ tutti ci aspettavamo, troviamo una copia slavata, che inizia con pezzi cantati che sembrano dei CCCP electro-industrial (con tanto di proiezioni scontate dei soliti criminali nazisti) e che nel momento in cui la performance sembra iniziare a funzionare, coi suoni che si fanno più scuri e le voci più tetre, la affossa con una versione edulcorata di Confesso tutto!, che perde tutta l’originaria follia e burla per trasformarsi in qualcosa dal retrogusto politicamente corretto in odore di Offlaga… Il gruppo principale della prima serata, satanico, ci delude lambendo il patetico.
Ci dormiamo su, ci ingozziamo a colazione, digeriamo con una camminata lungo la salita che porta al santuario di Sant’Augusta e a metà pomeriggio siamo giù giusto in tempo per l’inizio dei concerti pomeridiani. Beh, più o meno giusto, Utat (duo di Conegliano Veneto) ha già iniziato a suonare e il cortiletto è stipato, per cui ce lo sentiamo dall’interno, sbirciando dalla porta. Peccato perché quello che si sente non è affatto male, bordoni psichedelici nella loro ripetitività, che si arricchiscono di suoni più vari. Dopo di lui il deliro: Sissy Biasin, voce e passamontagna, (indovinate da chi assistito, alle macchine elettroniche?) fa di tutto per rendersi impresentabile, stuprando un violino e un clarinetto, declamando testi assurdi, dando vita a un’esibizione in confronto a cui il peggior rumorista del catalogo Load apparirebbe come un virtuoso. Quelli che ci regala sono momenti di autentico imbarazzo, specie nel finale, con un’allibente versione a cappella di La Domenica Andando Alla Messa, ma in questo essere in equilibrio fra genio e idiozia è assolutamente disturbante, cosa che la sera prima i Teatro Satanico nonRies Straver sono riusciti a essere. Dopo una cosa del genere non può venire nulla e capita quindi a fagiolo il trasferimento nell’altra sede. Troviamo però il tempo, prima di avviarci, di onorare un prodotto locale per noi assolutamente nuovo e sorprendente, quel prosecco fermo che da noi non esiste e che qui è giustamente fiore all’occhiello dei migliori e peggiori bar. Spiace non poterne abusare almeno un po’, ma il dovere ci chiama. Oggi è sabato e il pubblico è quello delle grandi occasioni, non solo numericamente, fra groupies, reduci della scena hardcore locale, discografici emergenti e musicisti in cerca di nuova identità (pare ci fosse anche Moltheni); il benvenuto, non propriamente facile, glielo dà Dead People Things, progetto noise di Giulio Bursi (ex The Death Of Anna Karina) che per l’occasione sonorizza una pellicola dipinta a mano dal Canedicoda, conosce qualche buon momento di interazione fra musica e immagini informali, per lo più monocrome, ma si prolunga ben oltre i limiti della sopportazione. Stremati, siamo rianimati, oltre dall’ottima pasta servita sul posto, dall’esibizione di Valerio Tricoli: battiti elettronici pesantissimi, riverberati, spesso oltre il limite del free, che sfociano in un finale drone, quasi pacificato. A fare da ponte fra questo e l’apoteosi metal che ci aspetta come finale, il set di Pietro Riparbelli, dark ambient dai tratti ritualistici. Un concerto lunghissimo ma estremamente vario fra canti chiesastici, voci effettate e irriconoscibili, bordoni che sommergono frequenze radiofoniche, ma che avremmo volentieri ascoltato tutta la notte. Invece finisce e ci becchiamo i Mortuary Drape, black metal vecchio stampo con tutti gli ammennicoli e i travestimenti del caso, dalla tonache Death SSiane al face painting di sapore nordico. Peccato che il batterista suoni alla moviola, che le chitarre e il cantato non abbiano spinta e che tutto suoni irrimediabilmente datato e privo di mordente. Il pubblico pare divertirsi nel mimare pose e gesti da concerto metal, ma in un vero pit nessuno di loro uscirebbe vivo, né chi è sotto il palco, né chi è sopra. Ce ne andiamo a letto a metà del set, senza rimpianti: il gruppo principale della seconda serata, satanico, ci delude lambendo il patetico.
Sorge così il sole sull’ultima giornata, aperta con una doverosa gita e picnic pasquale al ventosissimo lago di Santa Croce. Stavolta arriviamo a Codalunga con ampio anticipo e riusciamo a trovare una buona posizione per gli ottimi Jüppala Kääpiö, duo elvetico-nipponico che si cimenta con una psichedelica fra violini, strumenti a corde eterodossi e suoni concreti campionati e messi in loop al momento. È l’unico concerto che si svolge qui per oggi, perfetta premessa di una giornata in cui praticamente tutte le esibizioni saranno di alto livello. Allo Studio Vascellari ci accoglie la sghemba messa in scena da Ries Straver, geniale interazione fra teatro, elettronica e video art incentrata sul concerto di loffa, che sarebbe piaciuta all’Ugo Tognazzi de Il Petomane. Da Lettera 22, ascoltato il disco, ci aspettavamo un attacco brutale, invece i due (Riccardo Mazza, chitarrista degli A Flower Kollapsed e Matteo Castro, Kam Hassah/Second Sleeep) giocano d’astuzia e spiazzano tutti con un set più ragionato, con i musicisti, uno di fronte all’altro, che sembrano affrontarsi in una sfida a base di elettronica ruvida e molto fisica, che gioca più sulla complessità delle trame che non sull’impatto rumoristico. Dopo qualche problema iniziale alla taratura dell’amplificazione in quadrifonia, Renato Rinaldi, da cui ci si attendeva molto, regala una prova di gran classe a base di elettronica molto suonata, seguito a ruota con lo stesso setup dell’impianto da un Mortuary Drapeconcentratissimo Giuseppe Ielasi, che si cimenta musica più sintetica, glaciale e calibratissima, ma di uguale effetto. Siamo al passo finale: in contrasto con la qualità della giornata ecco Void Ov Voices, creatura metal drone dell’ex Mayhem Attila Cshair. Il buon Attila, armato solo di voce ed effetti (principalmente il riverbero) ci sciorina un set lunghissimo a forza di voce distorta che invoca Satana ogni due parole, tra gesti da mago Otelma, tonache e candele nere: il gruppo principale della terza serata, satanico, ci delude lambendo il patetico. Noi, per tutta risposta ci tocchiamo le palle e usciamo, con un mezzo sorriso sulle labbra poichè i nostri sospetti sono stati confermati: il satanismo è stato un po’ il fil rouge (o noir?) che ha unito i set di chiusura di questo strano triduo pasquale, ma forse il vero tratto unificante è stato la ricerca di una certa falsità. I cliché industrial del Teatro Satanico, svuotati di efficacia, il baraccone di retorica black metal dei Mortuary Drape appena virato verso le più moderne tendenze del genere da parte del buon Attila: si coglie insomma una coerenza di fondo nella scelta degli headliner, gruppi-bidone che chiedono al pubblico di stare al gioco… Il ben noto gusto degli organizzatori per la marachella che scivola in farsa ha mica colpito ancora?
Chiudiamo con questo dubbio la Woodstock noise, tre giorni di pace, rumore e un po’ di musica: tirando le somme non si può che essere molto soddisfatti della qualità sonora complessiva, che unita alla simpatia di organizzatori e spettatori, al buon cibo e al buon vino… fa davvero la differenza! E l’indomani si torna a casa, soddisfatti e con un leggero fischio nelle orecchie.

(Foto di Mr.Bedroom)