The Ex + Ililta Band – 21/03/09 Interzona (Verona)

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Trent'anni (beh, qualcuno quasi cinquanta, mi sa…) e non sentirli. Gli olandesi The Ex, in occasione del trentennale, battono la vecchia Europa a suon di concerti, come fossero tante feste di compleanno. Purtroppo non tutti partecipano; fra le assenze, la più rilevante è certamente quella del cantante G. W. Sok, uscito dal gruppo alla fine dello scorso anno e sostituito da Arnold De Boer, factotum della one man band Zea. Qualcuno già storce il naso ma, sarà che non sono un fan accanito del gruppo, sarà che, in una formazione così programmaticamente aperta, arrivi e partenze mi danno l'idea di un che di normale, mi appresto a gustare il concerto senza troppi pregiudizi. Ad aprire le danze, un gruppo etiope che i quattro si portano in giro dopo averlo scoperto durante la permanenza in Africa Orientale.
Lo ammetto, prima di questa sera, l'unica cosa che mi evocava l'associazione fra le parole "Etiopia" e "musica" era una canzone dei Disciplinatha. Ricordate? "A noi, a noi, Addis Abeba! A noi, a noi, Addis Abeba!". Che Jah, Allah o chi per loro, abbia pietà di me. La Ililta Band, tre musicisti etiopi impegnati con strumenti tradizionali e voce, partono con una nenia che mi fa supporre che durerò, sì e no, cinque minuti al loro cospetto. Sto lì, non credo di essere il solo, giusto per un malcelato senso di colpa occidentale, soprattutto agli etiopi in Italia dobbiamo un minimo d'attenzione, dopo la guerra condotta coi gas asfissianti e la sua parte la fa forse anche il timore di fare la figura del leghista davanti agli olandesi, presenti in platea, così aperti mentalmente da andare a scovare in capo al mondo questi musicisti e proporceli. Ililta Band@InterzonaComunque sia, sarà per questa contorta buona disposizione, saranno i residui della sbronza di punk funk degli anni passati, col proseguire dell'esibizione un pochino si comincia a partecipare: i tre gigioneggiano parecchio, talvolta paiono mettere in scena lo stereotipo del buon negro sorridente degno dei minstrel shows ottocenteschi, ma indubbiamente la formula funziona. Va detto che, sulla sincerità dei tipi, metterei la mano sul fuoco: si divertono, saltano, ballano e ci coinvolgono, prima a fatica poi con sempre maggior scioltezza, in un gospel africano di chiamata e risposta e alla fine riescono pure a farci saltare a comando sulle note di uno strano blues. Non c'è che dire, hanno scaldato a dovere l'atmosfera e per un attimo penso che gli Ex dovranno impegnarsi parecchio per far meglio. Non so ancora quello che mi aspetta.
I quattro, che prendono posizione con le tre chitarre in prima fila, sono il ritratto perfetto di punk della terza età: maglietta, pancetta, strumenti con vernice scrostata, capelli brizzolati. In realtà mi aspettavo qualcosa di diverso, magari gli etiopi sul palco fin da subito (non arriveranno mai, invece) o qualche… stranezza, anche solo il contrabbasso visto in mille foto live, qualcosa che suggerisca uno scarto rispetto a un normale concerto rock; invece eccoli qua, nudi e crudi. Partono e nell'aria aleggia per un attimo lo spirito dei Clash; poi cambiano marcia e sono già gli Shellac. Certo, il gruppo di Strummer resta sottotraccia, emerge talvolta nel cantato spigoloso, ma in superficie e nel profondo dei nostri intestini, è tutto un duello di chitarre anni novanta fra Sonic Youth e Fugazi; pure June Of 44, in qualche risvolto più meditato. Tanti saluti al jazz e all'etno, qui non si avrà altro che un'overdose di seicorde. Beninteso, va benissimo così. Sarà, a suo modo, un concerto fatto di estremi. Da un lato gli Ex nulla concedono al revival e all'autocelebrazione, eseguendo quasi solo pezzi inediti: fan di vecchia data ed esordienti sono democraticamente uguali, stasera. Dall'altro, suonano canzoni estremamente prevedibili, monotempo e costruite su un identica The Ex@Interzonastruttura: strofa/ritornello chitarroso/strofa e a chiudere orgia strumentale, col mancino Terrie Hessels che tortura volentieri la sua chitarra con barattoli metallici, bacchette, cacciaviti. È il come suonano ad allontanare l'aria di routine: totalmente invasati, i quattro sono i primi a godere dei suoni che escono dai loro strumenti, è evidente nel loro dimenarsi ed è imbarazzante vedere come alla passione di questi signori faccia da contraltare un pubblico in camomilla, certamente attento ma fisicamente davvero poco partecipe. Loro proseguono comunque convinitissimi, testi impegnati e gioia strumentale, esempio di militanza che non rompe i coglioni e sa appassionare nella misura in cui i tipi dimostrano di sapersi divertire, lontani da pose scontate e imbarazzanti sloganismi: molti, da queste parti, avrebbero bisogno di frequentare un campo di rieducazione nei Paesi Bassi.Restano sul palco oltre un'ora i quattro olandesi, compreso un bis che è forse il pezzo più debole della scaletta, poi all'una giusta si chiude. Peccato, li avremmo ascoltati volentieri fino all'alba, e ne sono certo, avrebbero avuto energia a sufficienza. Davvero un buon compleanno.

 

(Fotografie di Ottavia Dosso)