Sebastiano Meloni/Adriano Orrù/Tony Oxley – Improvised Pieces For Trio (Big Round, 2010)

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Nella mole di cd che riceviamo e che escono, purtroppo ho accumulato un po' di ritardo nel recensire questo lavoro che coinvolge due musicisti sardi e quel monumento vivente di Tony Oxley. Che ci crediate o no, ho accumulato del ritardo per il puro e semplice fatto che volevo ascoltare e recensire questo disco con tutto il tempo che richiede, e di tempo, trattandosi di un'opera di improvvisazione "colta" fra contemporanea e jazz, potete star pur certi che ne richiede a sufficienza.
Siamo di fronte a un lavoro così impegnativo? Assolutamente no, anzi, nonostante la sua osticità è ampiamente masticabile per chi abbia un po' di pratica con improvvisata e jazz, ma non si tratta della solita musica che si muove su schemi triti e ritriti e questo pur attingendo da materiali e da ambiti ben precisi. Innanzitutto va detto che Sebastiano Meloni e Adriano Orrù escono dal conservatorio ed il secondo ha collaborato con gente come Fresu, Schiaffini e Paolo Angeli e questo giusto per citare i più conosciuti, quindi si tratta di gente ben inserita all'interno di un contesto in cui lo stesso Oxley sguazza, e per chi non lo sapesse si tratta di un monumento dell'avant jazz/impro britannico che ha suonato fra gli altri con Derek Bailey, Evan Parker, Lee Konitz, Charlie Mariano e soprattutto Braxton e Cecil Taylor. Dopo una presentazione di questo tipo sarebbe lecito aspettarsi un disco inserito in un contesto molto specifico e questo, ve lo posso assicurare, è vero solo in parte, visto che jazz (se di jazz possiamo parlare) di questo tipo in Italia se ne sente ben poco ed i motivi sono quelli che credo di aver già ripetuto in molte altre recensioni: scarso fegato, scarsa vendibilità, troppo oltre la soglia di ascolto del pubblico, troppo ai confini di un circuito, sempre che non si tratti di gente come Braxton, Ornette Coleman, Evan Parker che essendo nomi ormai consolidati… "possono farlo". A questo punto la domanda sorge spontanea: ma se uno deve avere un nome per poter suonare questa roba in Italia, deve andare per forza all'estero per farsi questo "nome"? Non credo sia troppo diverso da un mercato del lavoro dove si pretende che un giovane sia al contempo già specializzato (senza per altro aver mai lavorato) oppure, in quanto giovane, non abbia diritto di replica di fiducia o di credibilità qualunque idea o cosa faccia. Dicendo questo credo di aver già messo in campo la qualità migliore che caratterizza questo lavoro e cioè che si tratta di un disco intelligente, che prende dalla tradizione, ma non per questo "vecchio" (inteso con oltrepassato). Il piano di Meloni non propende mai o quasi per soluzioni apertamente melodiche e questo pur mantenendo un'agilità ed un certo swing (inteso solo nel modo di suonare) nel senso ritmico con cui interpreta i pezzi, Orrù gli fa da ponte suonando in modo spesso scomposto e non troppo prevedibile ed usando in modo alterno dita ed archetto. In tutto questo Oxley interagisce alla sua maniera, dimostrando (come se ce ne fosse ancora bisogno) perché gente come lui e Han Bennink hanno acquisito una certa fama sia nel circuito jazz che conta che in quello dell'improvvisazione seria. Swing astratti, folate di contemporanea con ritmiche appena accennate, raid free-jazz e scomposizione delle ritmiche che sono più vicine agli anni 70 degli Henry Cow più che a un trio jazz. Quello che forse caratterizza maggiormente in un contesto colto e "patinato" questo lavoro è ciò che fanno i due musicisti italiani, lo dico anche perché la batteria di Oxley, a tratti estrapolata da questo contesto non sfigurerebbe in certi dischi di elettroacustica e in certi lavori di avanguardia assortita. Le tracce di cui si compone questo lavoro, in media non esageratamente lunghe, sono sempre molto andanti e si muovono in profondità, talvolta intrise di un certo senso drammatico (Trio No. 3, Vertical Suite, Vertical Duo) ma si tengono a debita distanza da quella pesantezza di vivere (anche se forse sarebbe più appropriato dire "del" vivere) caratteristica di molta contemporanea. Si tratta di un disco registrato (magistralmente) in Germania e, come sempre, è facile pensare che il luogo abbia influenzato il lavoro dei tre. Disco molto interessante: il jazz è morto da tempo… potere al jazz!