Ronin – Fenice (Audioglobe/Tannen, 2012)

Ronin-Fenice-

Riprende la saga dei Ronin, senza un cambio vero e proprio, ma con un lavorio incessante verso uno stile che teme pochi rivali, specie dopo l’acclamatissimo Lemming. Una sorta di album di Matt Elliott, quello, senza che Matt Elliott canti mai (nemmeno Il Galeone). Il progetto di Bruno Dorella affronta, fiero e romantico, la nuova sfida con un cambio di line up, l’ingresso alla batteria di Paolo Mongardi ( Zeus!), e la consueta giostra di ospitate (fra cui: Enrico Gabrielli dei Calibro 35, Nicola Manzan e lo stesso padre di Bruno, Umberto Dorella, all’organetto nell’unico brano cantato, It Was A Very Good Year). Si apprezzano le stilettate di brani strumentali, in ammollo ben bene dentro Morricone e la cultura mediterranea (Jambiya), che trascendono il semplice post rock/slowcore finendo col creare quell’atmosfera unica, quasi vintage, che ben conoscete se avete già ascoltato un disco dei Ronin. Dunque, dov’è la novità in questa sorta di – così definito, non senza torto – cantautorato strumentale? La novità sta nel fatto che è proprio in Fenice che trovo, o immagino di trovare, la quadra del cerchio, il loro disco più bello. Ognuno poi ci sente dentro ciò che è più affine ai suoi ascolti: dal desert rock dei Calexico ai Karate, sporcati di suoni esotici e mediterranei, all’italian beat dei Bisonti, Corvi o Gatti Rossi. Senza bisogno di prendere il pallottoliere, qui ci sono almeno tre brani (e Selce è uno di questi) che valgono almeno quanto I Pescatori Non Sono Tornati, e tutto suona pure molto più omogeneo e semplice dello stesso incensato Lemming. Ma non sono questi i motivi a ben guardare. Forse sarà che dal vivo i Ronin suonano chiari, cristallini e rodati più che mai con le chitarre di Dorella e Nicolla Ratti che si inseguono (proprio nel pezzo Fenice) e giocano manco fossero quelle dei fratelli Kadane (New Year). Come nei precedenti dischi – dove venivano reinterpretate alcune canzoni come Il Galeone e (Spero) Venga La Guerra dei Wretched – in Fenice la cover spetta al brano It Was A Very Good Year composta da Erwin Drake e resa celebre da Frank Sinatra. Qui presta la voce Emma Tricca, ed è forse, bisogna ammettere, l’unico momento di stanca di un album altrimenti eccezionale.