Pixies – 05/06/10 Piazza Castello (Ferrara)

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Io ci provo, ardentemente, a ricacciare i cattivi pensieri e l'evidente e incipiente vecchiaia, ma il mondo non mi aiuta. Vedere i Pixies per la prima volta a trent'anni suonati è un'esperienza che sconsiglio vivamente, giacchè a ondate di mutilazioni forse si è già sfibrati ancora prima di partire. Nonostante questo in un'afosa mattinata tardo primaverile, foriera di buoni sentimenti, carico la macchina e la punto dritta in direzione Ferrara, conscio della mia buona fede, della mia predisposizione al pregiudizio e al fatto che, comunque vada, sarà una gita.
In realtà, lo nascondo fuori dalla parte della recensione che finisce in homepage, son lì per amore, dacchè il biglietto risulta essere compendio del dono natalizio alla signora, nota terrorista fanatica dei quattro panzerotti. La mia presenza non è necessaria, bastano loro, ma risulta sicuramente gradita, come nelle peggiori feste comandate familiari.
Già il fatto di aver dovuto acquistare il biglietto con sei mesi di anticipo mi mette d'umor nero, tralasciando di lanciarmi in un pippotto sul prezzo di ingresso, che è per altro in linea, più basso forse, con gli standard produttivi di eventi del genere.
Si evita anche di narrare le assolutamente piatte fasi di avvicinamento a mò di diario tardo, molto tardo, adolescenziale, per arrivare al clou: io me l'ero scordata questa cosa, però questo è un rock show! Uno di quelli veri, non quelle robe che le evoluzioni da straccioni hardcore ci hanno insegnato ad amare e a considerare come lo "standard".
Qui si parla di gente che ogni anno vede solo Ac/Dc, Metallica, la reunion dei Guns'n'Roses, Imola, Monza, Ponza e i Pixies. Tutto questo non mi suona e mentre sono in coda faccio t-shirt spotting come nella grande tradizione dell'indiesnob. Vincono ovviamente magliette vintage di tour lontani nei secoli e nei millenni (1992 where were you?). Fa capolino un coraggioso con il logo di Planet Rock (vecchio, quei tempi non torneranno MAI più). Quel che stupisce è una fila ordinata, in Italia, ulteriore evidente segno che non sono l'unico anziano che vorrebbe distorcere a proprio uso e consumo quell'idea di rock show che si sta formando, momento dopo momento, davanti ai nostri occhi. Alla nostra sinistra il celebre Savonarola ammonisce (merito suo l'ordine?) e i magliettari vendono, alla nostra destra vengono distributi a3 fotocopiati con contributi di locals più o meno famosi sull'importanza della band nell'economia mondiale in bancarotta, come a ricordarci "Chiedi chi erano i Pixies" in una corale versione Stadio, Dalla, Morandi e Ron.
E poi si entra sul nervoso ciottolato della Piazza del Castello, splendida cornice e palco lievemente ridimensionato, una più raccolta e intima versione del concetto di rock show (più tardi i membri del gruppo dovranno, comunque, urlarsi tra di loro per sentirsi…). Cinque palle, lampadari dell'Ikea come suggerito da molti, campeggiano sul palco, a simboleggiare cinque stelle di qualità (Mereghetti docet) o a metafora anticipata di un finale snobisticamente annoiato?
Il concerto parte alle 21:30 e fila dritto per quasi due ore, se si contano i venti minuti di pit stop forzato, col gruppo che esce, per far rimettere a posto le barriere sfondate dal pogo forsennato di troppi trentenni, oggi appesantiti come i loro eroi sul palco, che volteggiano in preda a pulsioni giovanili da anni sedate. Nota di demerito per Pietro di DNA che cerca di far indietreggiare i presenti, una piazza intera dato il sold out al botteghino degli ultimi giorni, con un aplomb che gli è valso un coro di insulti da un pubblico che, improvvisamente, ha resettato il cervello in modalità sedicenne in calore. Nota di doppio demerito coi fiocchi a questi ultimi geni del male che, invece, di muovere pacatamente indietro e permettere operazioni più rapide si mettono a intavolare discussioni frustrate al vento contro questo pazzo pazzo mondo di complottisti occulti. Ultima nota di demerito al djset di riscaldamento che si potrebbe per la maggior parte definire un viaggio del tempo senza DeLorean. A leggere il libro di De Gennaro sul redigere playlist in condizioni simili (folle da rock show per Vasco per lui, attempati over trenta per i due giovani tshirtati Keith Haring Vs Impact) altro non avrebbero potuto fare, e neanche meglio, forse. Rimane che anche loro hanno vogato insistentemente per turlupinarci una forzata immedesimazione nei nostri, lontani, sedici anni.
pixies Della musica poco, veramente poco, c'è da dire: sono i Pixies ed è impossibile che non vi ci siate mai inciampati: che significa che anche di dischi ai quali avete dato un ascolto furtivo nella macchina di un amico ricorderete la sequenza nota per nota. Una scaletta ricca e completa, per i palati tranquilli come il mio, alla Pavlov, dove per ogni attacco suonava una campanella che richiamava alla mente il resto del pezzo.
A parere personale, eccezionali quando si aggirano in territori da Talking Heads evoluti, geniali nel pop, perfetti nel dosaggio degli elementi, scatenati nelle tirate che tutti aspettano. Pochissimo interplay tra i musicisti a livello di chiacchiere o altro; si riporta un solo scambio degno di questo nome tra la Deal e Black Francis, sull'aver o meno conosciuto, o sfiorato, Neil Young. Nessuna parola tra un pezzo e l'altro, poche sillabe pronunciate, Kim perennemente e chimicamente sorridente, David "Jean Paul Gautier" instancabile e Joey e Charles/Frank un po' troppo sulle loro. Esecuzioni impeccabili, i fan dicono un filo sottotono, ma decisamente in bolla per il pubblico medio che li adora come le citate palle che arredano il palco, senza impegno. Un paio di bis scontati, indovinate voi quali e non sbaglierete, e poi tutto finisce con quel gusto un po' amaro di un qualcosa di ritrovato.
Il rock show impeccabile di una band che è la quintessenza di una band perfetta per la nazione alternativa. Sono i Beatles dove i Sonic Youth sono i Rolling Stones: il gruppo cristallizzato che ha fatto, in pochi dischi, canzoni sempre diverse e ben caratterizzate contro il gruppo che ha fatto un milione di dischi sempre cambiando direzione, marcia e sonorità. Entry Level eccezionale per chiunque voglia traghettarsi dai classici a qualcosa di più ragionato, senza però rischiare di imbattersi in balbettii devoluti o suonazzi inascoltabili. Ci sono le nuove generazioni, non in massa, ma presenti. Ci siamo noi, reduci da quasi due decenni non di certo memorabili quanto mai ricchi di cambiamenti. C'è l'idea stessa di rock show, ancora così avvizzita su stessa e, contemporaneamente, così vitale da risultare credibile.

foto di The Big White Rabbit