Paolo Cantù: soltanto io, da solo.

Paolo Cantù si è fatto le ossa in seminali gruppi dell’industrial italiano all’inizio degli anni ’80, ha suonato la chitarra nella primissima formazione degli Afterhours, è stato parte di un gruppo fondamentale per la musica sperimentale come A Short Apnea, ha militato in Six Minute War Madness, Uncode Duello, EAReNOW e in un’infinità di altri progetti, di cui ci siamo spesso occupati. Chiusi tutti i precedenti capitoli, quest’anno la sua storia è ripartita con un nuovo nome, Makhno, e un album, registrato in quasi completa solitudine, che è da annoverare fra le cose migliori uscite nel 2012: Silo Thinking è un’opera intensa e complessa, diretta ma non facile da circoscrivere in tutte le sue molteplici diramazioni. Abbiamo voluto saperne di più e, già che c’eravamo, ne abbiamo approfittato per ripercorrere le tappe della sua carriera.

SODAPOP: Tu hai iniziato a suonare con Orgasmo Negato/Nulla Iperreale e poi coi Tasaday, due gruppi che gravitavano intorno all’etichetta ADN, quindi nell’area industrial (sebbene abbastanza fuori standard), dopodiché il tuo percorso ti ha portato lontano da questi lidi. Ci parleresti un po’ dei tuoi esordi?
PAOLO CANTÙ: Innanzitutto Orgasmo Negato (che poi cambiò nome in Nulla Iperreale) e Die Form si possono considerare un unico collettivo, eravamo un gruppo di persone legate dagli stessi interessi con una forte comunità di intenti. Inizialmente Die Form era la parte “musicale” e noi intervenivamo ai concerti in modo performativo (rischiando anche le botte, in una occasione). Dopo brevissimo tempo iniziammo anche noi a suonare, ma facendo i concerti sempre come Die Form e Orgasmo Negato. Poi, dal cambio di nome alla fusione totale tra le due entità musicali nei Tasaday, il tempo fu veramente breve. Giustamente definisci l’esperienza “fuori standard”; pur se folgorati dalle esperienze di Throbbing Gristle, SPK e affini, i nostri ascolti e le passioni musicali di quel periodo erano Makhno_01anche, e soprattutto, Pop Group, Gang Of Four, Joy Division, Wire, la no wave e così via… Era un periodo di gran fermento per noi, di scoperte giornaliere: tutto era una novità e queste influenze riuscivano a coesistere senza difficoltà. Questa fu da sempre la particolarità dei Tasaday rispetto a tante esperienze del giro industrial. Posso dire senza problemi, ad esempio, che anche negli anni ’90 una delle loro passioni maggiori (e una delle “molle” che permisero in qualche modo una rinascita della band) furono i Fugazi.

SODAPOP: Com’era quel giro musicale?
PAOLO CANTÙ: Parlare di “giro” musicale in quegli anni è un po’ particolare. Ricordiamoci che erano gli inizi degli anni ’80, quindi no internet, no e-mail o Facebook, no cellulari (a volte sembra scontato dirlo, ma spesso ci si dimentica…) e quindi le informazioni arrivavano attraverso riviste e fanzine, o coi contatti via posta e spesso tutto era “condito” e mitizzato con grande facilità. Le nostre interazioni maggiori le abbiamo avute con Maurizio Bianchi, Laxative Souls, FAR e col giro bergamasco da cui poi nacquero le Officine Schwartz. Ad un certo punto ci fu il distacco da parte mia e di Robert Girardi (batterista, poi con me negli Afterhours). Avevamo vent’anni, e tanta voglia di recuperare quelle radici rock e “punk” che stavano man mano scemando nei Tasaday. Ascoltavamo molto di più i Cramps, gli Stogees e i Velvet Underground e pur continuando ad avere ascolti in comune con gli altri, cominciavamo a sentirci soffocati. Sentivamo un bisogno di apertura, e per noi quell’ambiente in quel momento era sinonimo di chiusura.

SODAPOP: Il tuo strumento d’elezione è la chitarra, che hai imparato a suonare da autodidatta. Quali sono stati i tuoi ispiratori e modelli all’inizio e quelli che sono venuti dopo?
PAOLO CANTÙ: Difficile dirlo. Ho avuto una grande fortuna, quella di avere un fratello con la passione della chitarra. Quando avevo 6/7 anni in casa mia c’era già una chitarra elettrica e un ampli valvolare. In casa la musica che ascoltavo di riflesso era quella dei Deep Purple (secondo te qual è il primo riff che ho imparato?), Genesis, Pink Floyd, Hendrix, ecc… Quindi ho iniziato a “suonarla” (ti lascio immaginare…) abbastanza presto, e i modelli erano una sorta di miscuglio tra i generi più improbabili. Di sicuro la mia folgorazione da adolescente per il punk e la new wave ha avuto un peso più importante; a 16/17 anni mettevo Entertainment dei Gang Of Four sul piatto e ci suonavo sopra la chitarra per tutta la durata (devo dire che lo facevo anche con il bootleg Warsaw dei Joy Division). Alla fine però penso che i Sonic Youth siano stati quelli che a livello chitarristico mi hanno aperto un sacco di strade, e di sicuro non solo a me.

SODAPOP: Oggi ti cimenti praticamente con ogni tipo di strumento, cosa che in Silo Thinking, realizzato in completa solitudine, è stata fondamentale: ti sei da subito interessato agli altri strumenti o è una necessità/curiosità venuta col tempo?
PAOLO CANTÙ: Sono sempre stato affascinato da altri strumenti, la batteria in primis, in una seconda fase anche dagli strumenti a fiato. Già con i Tasaday tutti suonavano (o si cercava di farlo) un po’ tutto, dal synth alle percussioni, dal basso alla tromba. Ho una fortuna e una caratteristica, che è quella di avere un makhno_02buon orecchio e un approccio molto intuitivo verso gli strumenti musicali, poi però arrivato ad un certo punto mi fermo lì. Non c’è uno strumento che posso dire di suonare bene; sì, forse la chitarra, ma sempre e comunque a orecchio, non conosco e non leggo la musica. Quindi quello che cerco di fare con tutti gli strumenti è di imparare il necessario per riproporre in maniera elementare le linee musicali o i pattern percussivi che ho in testa.

SODAPOP: Hai fatto parte del giro milanese che ruotava intorno al Jungle Sound, hai partecipato da socio all’avventura del Bloom, hai lavorato come tour manager, toccando anche ambiti che esulano dal giro strettamente underground. Credi che fare esperienze di questo tipo, a contatto anche col lato economico della musica, sia utile alla carriera di un musicista? O almeno, nel tuo caso lo è stato?
PAOLO CANTÙ: Direi che nel mio caso non è stato utile, o meglio, non ho mai cercato di renderlo utile. Ho sempre cercato di tenere separate quelle che sono le mie necessità di sopravvivenza (il lavoro) da quelle che sono le mie idee rispetto al fare musica. Ho fatto il tour manager e in realtà, dal periodo in cui l’ho fatto per gli Afterhours e poi per Cristina Donà, non ho quasi più lavorato nell’ambito strettamente musicale. Per scelta ho cercato nel tempo di distaccarmi il più possibile, fortunatamente riuscendovi, verso ambiti diversi. Adesso ho molto più a che fare con compagnie teatrali, acrobati, balletti, a tutti gli effetti un altro mondo.
Differente il discorso Jungle Sound. Più che di “giro milanese” per un periodo è stata quasi una comunità a tutti gli effetti. Erano gli anni ’90, il periodo d’oro per un certo tipo di musica, con le major sempre più interessate a nuovi gruppi rock e il Jungle, oltre a sala prove e studio di registrazione (e vero e proprio luogo di scambio e incontro tra gruppi), iniziò l’attività di management. L’illusione di quel periodo rispetto alle major venne presto alla luce, fortunatamente. Dico fortunatamente perché io a certi ideali di indipendenza e DIY non ci ho mai rinunciato. Comunque questa cosa non toccò particolarmente i Six Minute War Madness, per fortuna eravamo troppo diversi e poco appetibili, e dobbiamo solo ringraziare il Jungle per l’opportunità che ci diede di registrare i nostri dischi e utilizzare i mezzi a loro disposizione in completa libertà e senza mai imporci o chiederci nulla in cambio. Ci credevano veramente.
Il Bloom è un’altra cosa ancora. Sono sempre socio della cooperativa (perché il fatto di essere una cooperativa è sempre stato motivo di orgoglio) anche se non partecipo più in maniera attiva. Parlare del Bloom diventerebbe una cosa molto lunga. Consiglio a tutti di leggersi il libro dei 25 anni Sviluppi Incontrollati, Mezzago crocevia Rock uscito per Vololibero. Par quanto riguarda la mia esperienza diretta, potete leggere il contributo al libro qui: vivacanzi.tumblr.com.
SODAPOP: Durante la tua carriera hai militato sia in ensemble sperimentali (Tasaday, A Short Apnea, Uncode Duello e una miriade di altri progetti), sia in gruppi più canonicamente rock (Afterhours e Six Minute War Madness), a volte anche contemporaneamente. Al di là di quello che è stato il tuo guadagno personale, ti sei servito delle esperienze e del tipo d’approccio dell’uno per arricchire l’altro o hai sempre tenuto separate le due cose?
PAOLO CANTÙ: Qui riprendiamo un po’ il discorso da dove l’avevamo lasciato poco fa. A parte il periodo post-Tasaday di rigetto per una certa sperimentazione estrema, io certe cose le ho sempre ascoltate e in qualche modo ho sempre sentito che il mio percorso mi avrebbe ad un certo punto riportato a frequentare certe musiche (anche con gli stessi Tasaday, alla fine). Anche nel periodo dei SMWM (non a caso il nome fu una mia idea presa da For How Much Longer… del Pop Group), la musica con cui sono cresciuto è sempre stata per me un riferimento, attitudinale innanzitutto, che è la cosa più importante; poi quella che fai in un determinato momento è dovuta a tante cose, passioni momentanee, intrecci e sintesi tra le persone con cui suoni, percorsi di crescita anche comuni. Quindi per rispondere alla tua domanda, direi che sì, in alcuni momenti di più e in altri di meno, ma mi sono sempre servito delle esperienze per arricchire i due aspetti. A Short Apnea è stato per me il momento fondamentale di interazione.

SODAPOP: E giusto di loro veniamo a parlare. È stato un progetto dai risultati notevoli: credo che insieme, tu, Xabier Iriondo e Fabio Magistrali, abbiate in un certo senso espresso al meglio le vostre singole qualità. Tu che cosa ne pensi? Cosa ricordi? Che cosa ci puoi dire del dietro le quinte?makhno_03
PAOLO CANTÙ: Sono d’accordo, e il momento più alto è stato Illu Ogod Ellat Raghedia. A Short Apnea è stata una esperienza fondamentale, nata durante le registrazioni de Il Vuoto Elettrico dei SMWM. E’ stato in quel periodo che con Xabier e Fabio abbiamo sentito la necessità di mettere assieme le nostre esperienze e creare una sintesi in un progetto musicale: da lì nacque il disco omonimo. Fu un momento di crescita reciproca, o perlomeno per me sicuramente, un ritorno a quell’atmosfera di scoperta di cose nuove o riscoperta di cose del passato. Dietro le quinte? Il dietro le quinte è casa di Fabio, in aperta campagna, le registrazioni di Illu Ogod…, le giornate a registrare in ogni luogo possibile, in ogni stanza, a ricercare suoni d’ambiente differenti, all’esterno, o nell’ex pollaio, nella ex porcilaia. I confronti e gli scontri. C’è stata una fase in cui eravamo veramente un “Trio”. Fino a quel momento tutto bene, o quasi. Poi, dopo …Just Arrived, il disco con i Gorge Trio, avevamo già iniziato a registrare parecchio materiale per un nuovo disco, ma oramai il meccanismo si era inevitabilmente inceppato. Avevamo ancora un sacco di grandi idee e le stavamo mettendo in pratica, mi sento di poter dire che musicalmente la parabola non era ancora compiuta, ma eravamo arrivati al punto in cui anche fare quella che, per noi, era grande musica, non aveva più senso se non c’era più quel procedere insieme nella stessa direzione nonostante tante differenze personali, quell’intesa che aveva fatto scattare la molla iniziale.
Io e Xabier abbiamo poi proseguito insieme con Uncode Duello quella che è comunque una storia diversa, ma comunque inevitabilmente un’emanazione dell’esperienza ASA.

SODAPOP: Passiamo a Silo Thinking. È la tua prima opera solista dopo anni di frequentazione del giro musicale. Perché proprio adesso, non ne avevi mai sentito l’esigenza o solo ora hai trovato il tempo?
PAOLO CANTÙ: Ho sempre creduto nel collettivo, nel lavorare insieme ad altre persone di pari ruolo e importanza, quindi inizialmente non ne avevo mai sentito la necessità. Ogni tanto ci pensavo, ma sentivo che non era il momento. Il momento è arrivato quando ho sentito che, dopo tanti anni, l’identità di “collettivo” con altri veniva a mancare: non mi potevo più identificare con un gruppo di persone che lavorano nella stessa direzione. Era il momento di ripartire, e il modo giusto per me era farlo ricominciando dal nulla, da qualcosa che non avevo mai fatto, compreso il suonare da solo dal vivo. Un’esperienza per me assolutamente nuova, che non significa abbandonare l’idea di collettivo in cui ho sempre creduto. Per me “collettivo” sono anche e soprattutto le persone con cui ho condiviso l’idea di lavorare e pubblicare il disco: da Mirko della Wallace a Stefano e Jacopo di Hysm? a Mauro e i ragazzi di Brigadisco a Federico che ha scritto il testo e cantato makhno_04Custer. E non è detto che, magari in futuro, non condivida il progetto, anche musicalmente, con altre persone.

SODAPOP: Quanto c’è voluto per metterlo insieme?
PAOLO CANTÙ: Il disco l’ho registrato in casa, più o meno nell’arco di tempo che va dall’agosto 2011 a febbraio 2012.

SODAPOP: Una curiosità: come mai questo album esce sotto pseudonimo di Makhno mentre i quattro pezzi sullo split con Xabier Iriondo per la serie Phonometak sono usciti a tuo nome?
PAOLO CANTÙ: L’idea del Phonometak risale a tempo fa, se non sbaglio fine 2009, con due facciate divise tra me e Xabier. Quando è stato pubblicato stavo già registrando Silo Thinking ma ho ritenuto giusto pubblicare i quattro brani a mio nome, anche perché quella prima esperienza in solo era nata in modo diverso, con esigenze e caratteristiche diverse. Makhno è nato come un progetto, l’unico che ho in questo momento.

SODAPOP: Al di là del fatto che, stilisticamente, si senta l’influenza di alcune tue produzioni precedenti, consideri Makhno come la continuazione di un filone che avevi già iniziato o come un capitolo completamente nuovo della tua carriera?
PAOLO CANTÙ: Entrambe le cose. E’ il nuovo capitolo della mia “carriera” con delle caratteristiche ben precise, dove ho cercato sintetizzare le mie esperienze passate al servizio di qualcosa di nuovo.

SODAPOP: Nell’album le parti vocali sono essenziali e, essendo spesso campionate, danno vita a una specie di anomalo cantautorato. Il materiale testuale della prima parte, quello diciamo più politico, è piuttosto eterogeneo, chiamando in causa ribelli di quasi ogni tendenza: Nestor Makhno, era un anarchico che combatté tanto gli Zaristi quanto i Bolscevichi, Robert Catesby, l’uomo che ordì la Congiura delle polveri, era un militante cattolico che si opponeva all’oppressione della Corona inglese, Ulrike Meinhof una militante di estrema sinistra, la voce narrante di Zena un antifascista. A suo modo, anche la voce narrante di Custer è quella di un ribelle. Come hai raccolto il materiale vocale che hai utilizzato e con che criteri?
PAOLO CANTÙ: Diciamo che il materiale l’ho ricercato o mi ci sono imbattuto casualmente, ma sempre in maniera consapevole. In tutti i casi l’obbiettivo era quello di utilizzarli proprio come se fossero dei cantati veri e propri. Mi interessano certi argomenti, ma (come spessissimo è successo nei progetti precedenti) mi interessa ancora di più usare questi elementi per evocare qualcosa, dare degli input che possono indurre chi ascolta a ricercarne l’origine o semplicemente a dare una propria interpretazione. L’elemento politico c’è, ed è voluto, ma attenzione, spesso il riferimento è più sottile, più riferito alla storia, all’attitudine, a certe caratteristiche (che poi è comunque qualcosa di “politico”), specie nel caso di personaggi quali Makhno e la Meinhof. Su Custer ho poco da spiegare, è tutto molto esplicito nel testo di Federico. Il racconto di Zena lo trovo fantastico (anche per la “musicalità” del dialetto genovese), e la prima cosa che ho pensato è che ci vorrebbe qualcosa di simile per raccontare in modo semplice, veritiero, senza distorsioni, con nomi, cognomi e responsabilità, i fatti di Genova del 2001. Riguardo a Remember, ho makhno_05scoperto in un secondo tempo la storia di Robert Catesby: il riferimento è più cinematografico (e comunque politico), tratto da V for Vendetta. Citerei anche Stiv, che è un mio omaggio a Stiv Livraghi dei Tupelo. Avevo suonato una parte di chitarra sull’album In The Fog, volevo che mi rendesse il favore… o forse volevo più rimediare al fatto che non gli avessi mai chiesto di mettere la voce su uno dei miei progetti. Avevo già il brano e ho preso la sua voce da Speedway Blues: mi è bastato “ritagliare” strofa e ritornello, sovrapporli. Trovo che sia incredibilmente perfetto. Non ho dovuto fare nient’altro.

SODAPOP: Di tutti i campionamenti utilizzati, l’unico che non sono riuscito a identificare è quello usato per Father And Son: da dove è preso?
PAOLO CANTÙ: Father And Son è una delle scoperte casuali. E’ da un video preso in rete: un bambino di 4 anni che fa il predicatore religioso, figlio di un predicatore, con la stessa gestualità, la stessa foga di un adulto. Assurdo. Non so, devo continuare a spiegare quel che penso?

SODAPOP: Sei partito dalla musica e poi hai aggiunto le voci o hai seguito il processo inverso?
PAOLO CANTÙ: In generale ho lavorato prima creando una base musicale, inserendo poi i contributi vocali, e in un secondo tempo integrato e completato il brano.

SODAPOP: Ultima domanda, scontata ma necessaria: Makhno è un progetto che avrà un seguito o è da considerare una cosa estemporanea? Progetti futuri già in cantiere?
PAOLO CANTÙ: Come ti dicevo in precedenza è il mio unico progetto in questo momento, quindi con un futuro. Quello che mi interessa adesso è farlo girare dal vivo, in qualsiasi situazione, anche di dimensioni piccole, casalinghe. Se vuoi anche a casa tua, mi serve solo la corrente.

Per contatti: neonparalleli.blogspot.it

Foto live di Cecilia Pirovano
Foto a colori di Chiara Mattioli