Orfanado – Iter (Sound Of Cobra, 2011)

Piccoli noiser cambiano pelle, almeno temporaneamente, in questo progetto che coinvolge gente impegnata anche con In Zaire, Lago Morto, G.I. Joe, Lettera 22 e si rifà, almeno nelle intenzioni a Sun City Girls, Jack Rose, John Fahey e “un sacco di buona world music” (cito dal comunicato stampa). Gli ispiratori saranno certamente quelli, ma lo spirito mi sembra decisamente diverso e lo stesso comunicato stampa ci va più vicino parlando di “mix di psichedelia, folk e prog suonato con strumenti acustici”.
Se l’America dei due solisti serpeggia ogni tanto e il suono, pur meno rock, è in qualche modo accostabile a quello del gruppo dei fratelli Bishop, è l’idea di world music a mancare del tutto, almeno quella comunemente intesa, buona per i salotti di chi legge il Manifesto dove si ascolta la musica del buon selvaggio, o peggio, un meltin’pot buonista dove tutto si mischia in un pastone senz’anima. Sarà la suggestione data dal provenire da un paese che si protende in un crocevia di suoni e culture qual è il Mediterraneo, ma questo disco non mi appare poi così insolito, o almeno, sembra inserirsi in un filone che vanta padri nobili come i nostrani Aktuala o i britannici Third Ear Band, spiriti nordici affascinanti dall’Oriente. Questo nulla toglie comunque alla qualità di un disco in cui profumi etnici, portati da flauti, sitar e percussioni, si sposano all’oscurità del drone, dipingendo spesso un Mediterraneo a tinte fosche (Giordiania), ma che sa essere anche scanzonato (Iter, unico pezzo cantato, a suo modo l’hit del disco) o poeticamente notturno (la placida Ponente). Più musica di viaggio che non da viaggio, con Iter gli Orfanado raccolgono e combinano un’infinità di sensibilità diverse senza diluire la propria personalità, restituendoci un quadro che, grazie a un invidiabile aplomb, fa convivere coerentemente tutta una serie di strumenti e atmosfere ricche come la tessitura di un tappeto orientale.