My Dear Killer – The Electric Dragon Of Venus (Boring Machines, 2013)

Sorprende vedere come un’etichetta nota per la musica di ricerca come la Boring Machines stia, col tempo, accogliendo sotto la propria ala protettrice una serie di musicisti dediti a suoni più tradizionali e che per comodità potremmo definire folk, ma che in realtà battono tutte le strade lungo cui tale genere si snoda: dopo la trilogia di Rella The Woodcutter e in attesa del nuovo Bemydelay, che si annuncia assai diverso da To The Other Side, torna da queste parti My Dear Killer.
Sono trascorsi sette anni dal precedente Clinical Shyness e si deve dunque parlare di evento, per celebrare il quale, il nostro si circonda di una serie di collaboratori di livello. Su tutti, non ce ne vogliano gli altri, il redivivo ONQ (solista, già nei Morose, e attivo anche come Antenna 59, Nave e mille altri progetti) che ha collaborato alle registrazioni, mentre in singole canzoni compaiono compagni di scuderia provenienti da Morose (Piergiorgio Storti), Satan Is My Brother (Stella Riva), Sparkle In Grey (Matteo Uggeri) e HMWWAWCIAWCCW (Gherardo Della Croce). Gli ospiti, veri valori aggiunti che in alcune occasioni aggiungono delle voci, un violoncello, una chitarra sporca, non snaturano lo stile del musicista varesotto, che ruota intorno alla voce gentile che, accompagnata dall’acustica, intona melodie folk scarne e malinconiche. La possibilità di ascoltare finalmente un buon numero di brani, aiuta a precisare l’idea che avevamo di lui e fare emergere un fantasma che aleggiava durante gli ascolti dei lavori precedenti, ma a cui non riuscivo a dare un nome. Ricordate di Howth Castle, il duo messo su da Stefano Giaccone e Lalli dopo la fine dei Franti? The Electric Dragon Of Venus me li ha ricordati in più punti e l’evocarli porta con sé le loro fonti d’ispirazione, che inevitabilmente riecheggiano anche qui: Nick Drake, Tim Buckley e il suono meno spensierato della West Coast di quegli anni. Non si pensi comunque a un album passatista: My Dear Killer è qui ora, risciacqua il lo-fi nella corrente del folk classico e ci consegna un lavoro che, lontanissimo da ogni posa naif, mette in mostra senza paura timidezza e precarietà, trasformandole in elementi caratterizzanti della propria poetica. Per quanto in apparenza paradossale, si può parlare di piena maturità.