Mother – S/T (Commando Vanessa, 2019)

C’è in giro una nuova etichetta, nata dall’inesauribile substrato della città di Torino: Commando Vanessa è ambigua fin dal titolo, che associa durezza militare e nome da farfalla, paradosso sviluppato anche attraverso grafiche che rileggono i centrini e i santini della nonna secondo i canoni estetici del dinamismo sovietico. L’idea è quella di operare solo attraverso cassette e come prima uscita pesca in casa propria, affidandosi all’esordio solista di Tommaso Bonfilio, membro del trio SabaSaba. Io me lo ricordo per una rovinosa performance al No Fest del 2011 con gli allora suoi Blind Beast dove, vado a rileggere quanto scritto al tempo, mise in scena “un’esibizione che concilia rock’n’roll marcio e industrial degli albori, che dall’incomunicabilità iniziale cresce lungo un percorso tortuoso fino a un finale per chitarre, voce distorta e bidone del latte percosso”. Gli anni sono passati ma l’umore non deve essere molto cambiato, è anzi forse peggiorato per la solitudine della quale il musicista si circonda, portando la forma musicale a perdere ogni riconoscibile riferimento. Qui il rock’n’roll è morto da tempo, ne rimane giusto qualche osso preso a calci in una stanza vuota, mentre una voce biascica fra bottiglie che rotolano e nastri andati a male. Il Napoleon del primo pezzo viene da immaginarlo come un Tom Waits sbronzissimo e indolente steso in una vasca da bagno asciutta, mentre qualcuno, senza troppa convinzione, strimpella un basso e percuote le tubature giusto per dare una cadenza alla sua poesia. S.I.T.H. Shot In The Head cerca di recuperare un minimo di dignità associando una chitarra scarnissima a un gioco di chiamata e risposta fra voce impastata e rumore di nastri, ma tutto ciò che riesce a fare è evocare il suono del mare e strane melodie, captate su chissà quale frequenza, che vanno sotto il nome di 2252019. Un’allucinazione, sicuramente, perché le uniche cose che ci sono fuori dalla porta sono nebbia e buio, rischiarate a tratti dai fari delle auto: Charlee mette in mostra un po’ di battiti regolari bilanciati da pulsazioni che di regolare non hanno nulla, tastiere spettrali, recitato indolente, fischiettii abortiti. Può ricordare i Madrigali Magri più narcolettici, ma qui siamo ancora oltre, a un passo dalla dissoluzione del tutto. È un brano dalla potenza evocativa che contrasta con la forma apparentemente dimessa e che definirei splendido, non fosse che i toni utilizzati sono esattamente agli antipodi dello splendore. Quello che conta, alla fine, è che Mother è venuta a dirci che al di là dei tentativi di riqualificazione, delle tirate a lucido e dell’attenzione al decoro urbano, l’anima scura, esoterica e post-industriale di Torino è sempre lì, pronta a farsi cantare da chi sia in grado di entrare in comunione con lei.