Micah P. Hinson – 16/07/10 Verona Folk Festival (Bovolone – VR)

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Nel cartellone di quello che è certamente il festival peggio pubblicizzato della storia si poteva scorgere, fra i nomi della ahinoi rediviva Ginevra Di Marco e dell'insopportabile zingaro Goran Bregovich, quello di Micah P. Hinson, in programma nel parco della villa comunale di uno sperso paesone della media provincia veronese. Scopertolo in extremis, ci muoviamo senza indugio.
Preceduto da un terzetto siculo di cui ho prontamente e non casualmente scordato il nome, il giovane musicista originario del Tennessee si presenta privo dell'annunciata band, armato solo di una chitarra ascellare; il pantalone stretto e alla caviglia, le bretelle, gli occhiali da nerds, lo fanno assomigliare a una versione candeggiata dello Steve Urkel di Otto Sotto Un Tetto. Presentandosi, spiega la solitudine adducendo agli impegni familiari e ai problemi con la legge di alcuni membri dei Pioneer Saboteurs; sarà loquace per tutto il concerto, forse nel tentativo di superare un evidente nervosismo che all'inizio segna l'esibizione, fra canzoni abortite sul nascere a causa di tonalità sbagliate ed esecuzioni non propriamente da manuale. Poi, probabilmente anche grazie alle sigarette fumate alla frequenza di una ogni due canzoni, il concerto ingrana. Nello scarno arrangiamento per sola chitarra acustica e voce i pezzi perdono inevitabilmente l'atmosfera noir delle incisioni, ma se possibile si fanno ancor più dolenti, compensando con una maggior emotività micha_p._hinson_e_signora_bovolonel'assenza del supporto strumentale. Non sempre la solitudine è un male: impossibilitato a giocare coi modelli come capita nei dischi, emerge un Hinson più vicino a… sé stesso. Certo, i riferimenti alla tradizione si sprecano, dalla chitarra guthrieana alla cover di John Denver, ma la somiglianza più evidente, sottolineata sul finale anche da un duetto con la moglie, è quella col Johnny Cash maturo; se chiudiamo gli occhi parrebbe averlo lì e fa un po' specie vedersi di fronte un ragazzo di neanche trent'anni. Altro vantaggio che compensa l'assenza della band è che le canzoni sono inevitabilmente più corte, così nell'ora e mezza prevista (si deve tassativamente chiudere a mezzanotte) ne stanno stipate parecchie e dietro ogni angolo può nascondersi una perla, come nel caso di una scarna Seven Horses Seen la cui melodia non perde un oncia di bellezza, o di una Diggin' A Grave richiesta a gran voce dal pubblico e prontamente eseguita. Poi l'ora fatidica scatta e il concerto finisce; non si capisce perché l'house sparatissima del bar di cafoni che sorge poco lontano e che per un po' ha disturbato la serata, attirandosi l'ironia di Hinson, possa continuare, ma sono misteri che è meglio non indagare. Ce ne andiamo mentre il ragazzo di Memphis si intrattiene col pubblico a conversare e firmare autografi. Le prossime serate saranno appannaggio di Fiorella Mannoia, Davide Van De Sfross e dei due citati all'inizio. Noi non ci saremo, senza rimpianti.

(Foto di Elena Prati)