Liars + John Wiese – 06/11/10 Interzona (Verona)

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Alla terza volta che il gruppo americano transita da queste parti mi è parso il caso di dare un'occhiata per verificare se quanto di buone si è sempre detto sulle loro esebizioni corrisponda effettivamente a verità. Non ho mai stravisto per i loro dischi, ma spesso questi gruppi sanno trasmettere durante i live vibrazioni ben maggiori rispetto a quelle delle incisioni.
Il quartiere, all'apertura, è più affollato di passanti che si dirigono vero la fiera equina che non da appassionati musicofili, tanto che quando, ancora piuttosto presto, John Wiese sale sul palco si è in pochissimi in sala, consueto, crudele destino degli act d'apertura. Io mi piazzo fra due hipster del cazzo con la maglietta bianca d'ordinanza e mi preparo ad essere travolto dalle bordate di noise per cui il nostro è noto; da un sodale di Wolf Eyes seduto a un banchetto ingombro di apparecchiature come un grigio burocrate del noise, non mi aspetto altro. Ma i mie pregiudizi sono presto smentiti: i volumi sono alti ma sostenibili, i tempi rilassati ma mossi da battiti free e discontinui che, uniti a bordoni e feedback elettronici, vanno a comporre una specie di johnwieseinterzona"music for rail yards" che trasfigura l'interno di questo ex magazzino. Eppure continuo a diffidare, peggio del peggior San Tommaso e temendo il solito finale con crescendo noise spacca orecchie, accarezzo i tappi antirumore che ho in tasca, pronto a infilarmeli all'occorrenza. Sono invece definitivamente smentito, perchè il pezzo muta, abbandonando i fischi e si arricchisce di nuovi suoni, complicando al contempo la struttura percussiva, senza eccedere nei volumi. Gran classe insomma, riconosciuta dal lungo applauso tributatogli alla fine del quarto d'ora d'esibizione: un gustoso antipasto che non mi sarebbe dispiaciuto fosse durato un po' più a lungo. È comunque musica a suo modo rischiosa e forse è meglio tenersi un po' di languore, sperando che i Liars sappiano farlo sparire. Passa un altro quarto d'ora e gli americani si posizionano sul palco: Angus Andrew al centro, batteria alle spalle, basso sulla sinistra e alle estremità… i due hipster del cazzo (!) a tastiere e percussioni. Si parte infatti senza chitarre con It Fit When I Was A Kid, mantra tribale pasticciato dai suoni elettronici dell'hipster di sinistra, la cui somiglianza con Andy dei Bluevertigo non si limita evidentemente alla sola fisiognomia. Ricomparse le chitarre (una delle due magliette bianche era in effetti Aaron Hemphill) è il momento del vecchio singolo Clear Island e c'è chi comincia a saltellare, subito quietato dalla liarsinterzonanuova No Barrier Fun, croonerismo che si sposa con sommessi tribalismi, campo in cui Andrew dimostra di trovarsi a suo agio, grazie a una certa somiglianza, vocale ma non solo, con Nick Cave. Il concerto avanza alternando con regolarità un brano riflessivo a uno tirato, scelta che, a conti fatti, impedisce di sviluppare le potenzialità insite in alcuni pezzi, finendo per consegnarci una performance di canzonette, ognuna dotate alternativamente di un bel tiro o di un fascino malato, ma pur sempre canzonette senza gran respiro. Insomma, chi (e me ne rendo conto, sono pochi) si aspettava un gruppo capace di realizzare quella quadratura del cerchio che negli album non è mai perfettamente risuscita, rimane deluso, anche se il concerto procede senza mai annoiare e da Plaster Casts Everything (siamo ormai oltre la metà) viaggia con un bel ritmo, fra tribalismi post punk ed echi di pop anni '80, che provocano un divertito pogo sotto il palco. Ma appunto, oltre a tre quarti d'ora divertenti, di questa serata resta pochino: il coraggioso aperitivo di John Wiese aveva fatto sperare in ben altro.