Kotha – Black Animal Hex (Hate Mail, 2017)

Cresce in fretta Kotha, la mostruosa creatura di Daniele Santagiuliana, e – dopo aver pagato tributo ai maestri nel primo disco – volge ora il suo sguardo verso più ampi ma sempre lividi orizzonti. Se nell’esordio gli sconfinamenti oltre i limiti del genere erano occasionali, qui tutto si gioca in una terra di nessuno dove il suono tende ad espandersi mantenendo solo pochi punti in comune coi canoni stabiliti: in questa landa desolata il black metal cessa di essere uno stile musicale per diventare uno spirito che si incarna in suoni e strutture inusuali, modalità già sperimentata da altri e che sta contribuendo a tener viva l’antica fiamma ben più dei tanti pedissequi epigoni di Mayhem e soci. Un gruppo black sopravvissuto a un olocausto nucleare, con l’organico più che dimezzato e ridottosi a utilizzare gli strumenti rimasti o oggetti trovati, suonerebbe probabilmente come i Kotha di Black Animal Hex: sporco, minimale, lento, metallico, disarticolato. Nel percorso di allontanamento dalla forma canzone la (one man) band occhieggia al post-industrial (più ad Atrax Morgue che non agli ovvi MZ 412) e segue cadenze basso/batteria decisamente doom sulle quali innesta i ritmi ipnotici e meccanici dei Blut Aus Nord opportunamente scarnificati (Le Teste Tagliate Non Smettono Di Cantare), melodie spettrali sorrette da linee di basso post-punk (Sunset’s Tail) e una voce che ha davvero poco di umano e ci racconta, in una lingua incomprensibile, storie di indicibile sofferenza. Più di una volta si ha l’impressione di affacciarsi sullo stesso abisso in cui guardarono, con diversi risultati, i Khlyst di James Plotkin, ma l’unico, vero termine di paragone mi sembrano essere i misconosciuti Dead Reptile Shrine: l’idea di un black tribale e ritualistico ridotto ai minimi termini ma aperto ad influenze esterne e dove l’attitudine weird serve a fare emergere senza fronzoli l’essenza delle cose, sottintende ad entrambe i progetti, anche se Kotha spinge la dissoluzione ancora più in là. Non fatevi dunque ingannare dall’ambient nemmeno troppo dark della conclusiva Coda: è solo l’illusoria pace prima di una nuova tempesta.