Jodis – Secret House (Hydrahead, 2009)

Diamo il bentornato a James Plotkin; era dai tempi dell’abisso lovecraftiano di Chaos Is My Name dei Khlyst che non avevamo sue notizie, ma il nostro stava lavorando nell’ombra alla sua nuova creatura, Jodis, insieme all’ex compagno nei Khanate Tim Wyskida e ad Aaron Turner, oramai il sessionman più gettonato del giro Hydrahead. Tutto ci appare chiaro fin da subito. Ascent, con la sua chitarra leggermente distorta e la voce chiesastica che si riverberano nello spazio vuoto, detta le coordinate di un blues glaciale e lentissimo, che cerca un equilibrio di pieni e vuoti e dove il silenzio dà spesso l’impressione di prevalere. Sono queste le coordinate di un album il cui suono galleggia in un mare gelido, traendo forza dalla ripetizione e dalle micro variazioni che lo portano avanti, alla maniera di un Philip Glass che, in qualche universo parallelo, si sia laureato alla Earache University. Dalle nebbie emergono, di tanto in tanto, il fantasma dei Khanate (nel pezzo che dà il nome all’album) o il corpo dissezionato di Paranoid (in Waning), finchè il viaggio non termina nel whiteout di Silvers, dove i frammenti di tutti i suoni del disco galleggiano su uno statico bordone di chitarra. La casa segreta di Jodis è, in realtà, una cattedrale di ghiaccio con cui James Plotkin ridisegna, ancora una volta, i confini della musica estrema meno scontata.