Il Teatro Degli Orrori – A Sangue Freddo (La Tempesta, 2009)

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Oggi nessun gruppo italiano esterno al giro mainstream e dal suono così duro possiede la visibilità che può vantare il Teatro Degli Orrori; oggi, ma non da oggi. Forti di una credibilità ottenuta soprattutto calcando i palchi della penisola erano attesi al varco del secondo disco e ne erano consapevoli. Fra il replicare l'album precedente e il cambiare, magari alleggerendosi, il quartetto sceglie l'antica tecnica dell'un colpo al cerchio e uno alla botte, mantenendo l'originale durezza ma inserendo qua e là qualche divagazione più orecchiabile ed elegante.
Non fatevi ingannare dall'iniziale Io Ti Aspetto per voce, archi e pianoforte, già dalla seguente la temperatura comincia a salire col solito rock'n'roll roccioso alla Jesus Lizard, sebbene un po' annacquato. Non aiutano gli ospiti, numerosi come in ogni album "importante che si rispetti, ma utili più a nobilitare la canzone col proprio nome che non a portare un effettivo contributo; in questo caso sono della partita Jacopo Battaglia degli Zu, Nicola Manzan di Bologna Violenta, Giovanni Ferliga degli Aucan, i Bloody Beetroots e un'altra mezza dozzina che non sto qui a citare. È invece Capovilla il mattatore incontrastato delle 12 tracce: stile vocale ormai codificato (fino a rischiare l'autoparodia), istrionico ed eccessivo, scorrazza in lungo e in largo citando Celentano e recitando Majakovskij, lanciando didascaliche invettive politiche e cantando toccanti storie d'amore finito, elementi contrastanti che, forse, troveranno la quadratura dal vivo. Vien quasi da pensare che A Sangue Freddo sia più il suo album solista che non il parto di un gruppo, ma piaccia o no è lui l'elemento di spicco e la squadra è al suo servizio, anche a costo di sacrificare un po' della furia consueta. Rispetto all'esordio l'album è nel complesso più a fuoco, senza gli squilibri che caratterizzavano Dell'impero Delle Tenebre, con vantaggi e svantaggi: mancano i pezzi di grande presa (a parte forse quello eponimo) ma anche le canzoni insopportabili che allungavano inutilmente il minutaggio del predecessore. Fa eccezione l'orrenda Padre Nostro (sì, proprio la preghiera, rivista e non troppo corretta) che richiama alla mente gli altrettanto orrendi Rats (sì, proprio quelli di Indiani padani e Chiara). In fin dei conti, pur senza segnare un passo falso, questo secondo album appare meno dirompente dell'esordio e cercando di essere più fedele a quello che il gruppo è dal vivo, fallisce nel tentativo di trasmettere la stessa intensità.