Growing – All The Way (Social Registry, 2008)

Growing All The Way

Mi ricordo ancora la prima volta che mi hanno imposto l'ascolto del Dream Syndicate con Tony Conrad e La Monte Young. Il fastidioso senso di già sentito, reminescenza di anni di "alza i piedi che passo con l'aspirapolvere" di matrigna memoria, mi allontanò per lungo tempo dalle melme di certe sonorità rumoristico-reiterative. Tuttora preferisco quando certe composizioni vengono ricondotte a valori di riferimento più immediatamente rimasticabili dai miei gangli nervosi, come ritmo o melodia. Non è compito facile impedire alla manina di distruggere, dopo l'eject, il disco in ascolto. Eppure negli anni mi sono dilettato ogni qualvolta la ritmica approciava le insistite forme del motorik krautrock: quella coscienza repressa di linearità necessaria che senti come tua, dai Kraftwerk a Pacman, per rimanere in tema di una pastiglia dietro l'altra, qualunque cosa voglia dire un titolo come Rave Pie Only. La sicurezza commerciale della successione ritmica insistita è una riconquista dei nostri giorni, prova ne siano singoli carichi di intensità come quello dei Sigur Ros Gobbledigook, i Dodos di Fools o i capostipite della rilettura contemporanea, gli Animal Collective di Fireworks. All The Way dicono i Growing e lavorano sui brandelli del suono, creando limpide architetture sonore basate sulla reiterazione Reichiana su cui innestano le guglie della loro violenza. Sgusciati fuori dal post-post-rock ambientale di casa Kranky, figli bastardi del giro dei Black Dice e degli Yellow Swans, questi Growing, giocano allo shoegaze con le chitarre, che riempiono gli interstizi tra quei richiami digitali dei primi arpeggiatori cosmici che costituiscono la base stessa della ritmica. Una scena, quella dello shoegaze misto glitch su base krauta, che vede schierarsi band come i Fuck Buttons (vedi l'affinità elettiva con i Mogwai del recente tour/split con educati remix reciproci) e gli Holy Fuck in prima fila; band le cui strutture melodiche compongono anthem da stordimento neanche troppo "alternative", dati i sempre più consolanti risultati commerciali e da dancefloor. Come già certi trucchi di Aphex Twin, ripresi recentemente da Julian Fane, ospite della Planet Mu, la ripetizione di brevi licks melodici, ossessionanti all'inverosimile, permette di costruire quella continuità su cui si sfogano i glitch elettronici, pannati nel fronte stereo con gli echi del delay. Diversamente dalle intemperanze della scena dei terroristi sonori agli ordini di Lesser e dell'ormai ricondotto a ben più raveish lidi, Kid606, qui ci si sviluppa subito su ammorbanti e tranquillizzanti sequenze di accordi, semplici e chiare: sembra evidente la discendenza shoegaze delle strutture cui mancano solo certi vocalismi eterei a chiudere il cerchio. Niente tribalismi, acustici o vocali come negli esempi citati poco più sopra, ma schegge digitali, prefettamente definite, impilate, una sull'altra, a click. Se c'è una colpa da caricare ad un disco del genere è, forse, proprio quella di non rendere compiuta appieno la complessità possibile di questo sotto genere, ancora in via di definizione. Senz'ombra di dubbio questa è musica fortemente onirica che rigetta le tentazioni industriali per sfilacciarsi in tirate da sei minuti in media che, forse un po' scontate, sai già dove andranno a parare. Rimane alta la curiosità di sapere come riescano ad ottenere certi suoni, oltre che con muri di delay. Quel che è certo è che, data l'attuale trendiness di certe sonorità, non mi sento più così solo a credere che il suono dell'aspirapolvere, se modulato in maniera melodica, non sia poi così poco fischiettabile sotto la doccia.