Grey Machine – Disconnected (Hydrahead, 2009)

Torna a dedicarsi al rumore Justin Broadrick, dopo le alterne vicende del progetto Jesu. Lo fa raccogliendo attorno a sé il fido Diarmuid Dalton (già collaboratore dei Godflesh e ora nei Jesu) alla batteria, Dave Cochrane (ex God e Head Of David, ora nei Transitional) al basso e Aaron Turner (Isis e vari altri) alla chitarra. Una serie di nomi importanti, ma è palesemente Broadrick, con l’umore dei tempi peggiori (il che è un bene), a condurre le operazioni, un salutare allenamento in vista della riformazione dei Godflesh prevista per l’Hellfest di quest’anno. Il fangoso campo di battaglia in copertina prepara solo in minima parte alla sporcizia contenuta in Disconnected. Su un’armatura di batteria lenta e ripetitiva e basso-mammut vengono riversate varie colate di chitarre noise, le più sporche che si siano mai sentite e una voce filtrata e incomprensibile, usata alla stregua di un qualsiasi strumento; le sei corde più melodiche (fatte le debite proporzioni), che compaiono in alcuni episodi, sono solo un miraggio in un deserto isolazionista. È il ritorno del rock industriale nella sua forma più cupa e intransigente, dei Godflesh con K.K. Null alla chitarra, un monolite che però, alla lunga, più che impressionare annoia. Grey Machine è una squadra che gioca con un unico schema; capita l’antifona e prese le misure, dopo i primi tre o quattro pezzi, non resta molto da aggiungere. Certo, la ripetitività a oltranza può essere vista come una qualità in un contesto così nichilista, ma a questo punto si entra nel campo dell’autolesionismo più che dell’estremismo musicale. Fatte salve la movimentata Wasted e la dubeggiante Sweatshop, il disco avrebbe potuto benissimo essere ridotto di un terzo (in totale dura oltre 70 minuti) senza perdere di efficacia e guadagnando in concisione. Tutto sommato, comunque, è un piacere risentire Broadrick in un ambito dove sa ancora dire la sua con autorevolezza, senza procedere a tentoni come negli ultimi episodi dei Jesu.