Hood - Structured Disasters (Happy Go Lucky, 1997)

Gli Hood sono una band che appartiene a quella scena inglese che non fa parte del classico ambiente musicale anglosassone ma, insieme a gruppi come Flying Saucer Attack e Mogwai, rappresenta una tendenza che fa riferimento al suono americano più sperimentale e indie. Questo disco è una raccolta di singoli editi (e non) tra il 1990 e il 1996, anno di pubblicazione dell'ottimo Silent '88, e fa da tramite col nuovo Rustic Houses Forlorn Valleys, nel quale si respirano atmosfere più dilatate; va detto che ispirazione principale della band sono i Sebadoh più lo-fi e decadenti, quelli dei primi dischi: esemplari sono canzoni come 70's Manual Worker e Silo Crash, brevi registrazioni casalinghe nelle quali dissonanze e melodie molto azzeccate mostrano all'ascoltatore un mondo interiore descritto in modo duro e diretto, ma anche poetico nel suo essere fortemente intimista: ciò che sembra un gioco è invece una dichiarazione d'intenti, trasmettere la propria carica emotiva in maniera semplice e facile, il fine principale di questa musica. Non tutte le canzoni hanno però questa struttura, c'è anche lo spazio per qualche strumentale e per My Last August e How Bad Can It Be?, improbabili quanto emozionanti tentativi di trip-hop casalingo. La punta del disco, composto in sostanza da tanti piccoli bozzetti melodici inconclusi e immersi in rumori di fondo e distorsioni, ma che riescono a formare comunque un ritratto di vita superando l'apparente frammentazione, è I Didn't Think You Were Going To Hit Me In The Face, che già dal titolo descrive bene il testo: canzone con una distorsione sbavata e una melodia fenomenale, che si ascolta anche in versione semiacustica per trenta secondi in Toel Bow, breve brano successivo, dove è anticipata da nastri riavvolti ed altri rumori. Estetica scarna con foto in bianco e nero di paesaggi di campagna, note quasi inesistenti sono il giusto preludio all'ascolto di questo disco ostico ma vero e diretto come pochissimi fanno ancora: un passaggio obbligatorio per chi vuole scoprire che la bellezza sta anche in diciotto canzoni registrate in casa da alcuni ragazzi inglesi.

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Hood - The Cycle Of Days And Seasons (Domino, 1999)

Giunti al traguardo del quinto disco sulla lunga distanza, contando la raccolta di singoli Structured Disasters, gli Hood da Spofforth Hill aggiustano ancora una volta il tiro alla ricerca della loro strada: questa continua mutazione però non intacca la qualità del loro percorso musicale, anzi rende l'insieme più interessante. Questa volta le atmosfere sono meno dilatate che nel precedente Rustic Houses Forlorn Valleys, e vi è in qualche modo un riavvicinamento all'indie degli esordi, anche se filtrato dalle recenti esperienze più post; se ne ricava un suono elettroacustico dal grande impatto emotivo, nel quale trovano spazio effetti e riverberi, presi probabilmente da vecchie apparecchiature, e anche la voce maschile, affiancata come sempre da una femminile in sottofondo. Composto da otto brani di notevole intensità, il disco ha anche dei brevi intervalli che danno un senso di unità a tutto il lavoro, elemento nuovo nella struttura dei dischi degli Hood, solitamente molto frammentati; trovano spazio in questo disco strumenti come la tromba, il piano e le campane (probabilmente campionate da Fat Old Sun dei Pink Floyd), e rendono l'idea di ruralità che il disco vuole dare anche attraverso le immancabili foto di campagna che compongono il booklet. Rispetto agli esordi, una volta raggiunta la massima tensione i brani non hanno un picco di intensità rumoroso, ma implodono in sé stessi raggiungendo uno stato di calma malinconica, ad esempio in pezzi come l'iniziale Western Housing Concerns o September Brings The Autumn Dawn.
Nell'insieme il disco è interessante ed emozionale come ci si aspettava, e in più presenta a volte un'atmosfera rallentata che può far pensare al triphop, creata però non con macchine ma con strumenti analogici, il che dà al tutto un motivo in più per ascoltare The Cycle Of Days And Seasons, senz'altro uno dei dischi migliori usciti quest'anno.

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Hood - Cold House (Domino, 2001)

Continua la mutazione dei suoni nella storia degli Hood, come già testimoniato l'anno scorso dall'EP Home Is Where It Hurts: l'avvicinamento all'elettronica è oramai completato, il nuovo Cold House è infatti elettronico come mai prima d'ora. La batteria è affiancata e a volte sostituita dalla drum machine, blips e glitches sono fortemente presenti nei brani che però rimangono pienamente nello stile compositivo della band, basso-chitarra-batteria al solito virato su melodie malinconiche, tanta introspezione e cristallino spleen di fondo. L'effetto del disco è molto riuscito e in più ci sono le comparsate ai microfoni di Why e Dose dei Clouddead, che rappano in qualche brano: a dir la verità interventi carini ma che non aggiungono nulla al risultato complessivo. L'elettronica aggiunge freddezza alle composizioni, e quindi rende se possibile ancora più spettrale il suono di alcune canzoni, come ad esempio in This Is What We Do To Sell Out[s], la dolcezza e la malinconia di Hood immersi sotto una colata di glitches e blips; rimangono un paio di episodi completamente analogici, come I Can't Find My Brittle Youth, già edita sul raro EP per la Jonathon Whiskey, ma non stonano particolarmente con il resto del disco, in quanto la strumentazione è comunque presente in tutti i brani.
Hood stanno continuando ad evitare la strada della ripetizione, sfiorando mode e clichè, lambendo post ed elettronica senza mai in realtà cambiare la loro sostanza di fondo: atmosfere dolci, cantato malinconico e parecchia classe a condire il tutto.

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