Homesleep

Homesleep ha saputo coniugare una passione disinteressata e “understatement” per le adorabili sonorità indie rock che dai Pavement approdano ai Grandaddy (i grandi amori, tra gli altri, di Daniele Rumori, uno dei fondatori dell’etichetta) con uno spirito che in poco tempo si è fatto più (perdonatemi il termine) imprenditoriale nelle scelte e nella promozione dei gruppi. Il risultato è sugli occhi di tutti: la label bolognese è diventata un punto di riferimento (non l’unico naturalmente) per la scena indipendente italiana che guarda anche e soprattutto all’estero. Da qui collaborazioni prima impensabili e una nutrita schiera di band italiane fra le quali ricordiamo le più note: Yuppie Flu, Giardini Di Mirò, Midwest, Mirabilia e ora pure Julie’s Haircut; ma non solo: la famiglia continua a crescere ed allargarsi con l’ingresso sempre più numeroso di affermati colleghi stranieri (Fuck, Lenola…). Qui dedichiamo uno spazio alle ultime attese uscite della label bolognese; per ulteriori informazioni l’indirizzo è, come sempre, www.homesleep.it.

Yuppie Flu - Days Before The Day (Homesleep, 2003)
Ritorna dopo quasi quattro anni di silenzio la band anconetana che costituisce, assieme ai grandissimi Giardini Di Mirò, una delle proposte più interessanti nella scena indie nostrana, oltre che uno dei gruppi di punta per la Homesleep. A dire il vero durante questo tempo gli Yuppie Flu sono apparsi in varie compilations e split singles, ma soprattutto hanno fatto uscire The Boat EP che, con le sue soluzioni pop elettroniche, ha riscosso addirittura più successo del loro secondo album, lo sperimentale (e direi molto bello) Yuppie Flu At The Zoo.
Days Before The Day non cerca nuove direzioni, la band sembra aver trovato il suo equilibrio perfetto in certe melodie languide e solo apparentemente fruibili. Tante parole per riferisi ad un solo e orami abusato concetto: maturità. Ascoltando il disco si ha la sensazione che il gruppo sia finalmente e definitivamente arrivato a uno stile personale, non ci sono più pedaggi da pagare a chicchessia, tantomeno alla band capitanata da Stephen Malkmus. Un’opera dove i momenti più orchestrali (Dreamed Frontier) vanno a braccetto con quelli più intimi (Silvedeer, Now And On). Persino l’elettronica che giocava un ruolo primario nel precedente EP qui viene dosata e centellinata per essere sempre funzionale al raggiungimento di quello che poi è lo scopo di ogni singolo brano: rapire l’ascoltatore senza sorprenderlo. Svanita quindi (perlomeno momentaneamente) la voglia di stupire, la band marchigiana ha deciso di coccolarci con un lavoro che possa ambire a fare la sua porca figura anche se confrontato con i Notwist di Neon Golden o i Deus di Ideal Crash. E non chiedetemi per quale motivo mi sono venuti in mente questi due album, visto che i riferimenti del gruppo si fanno ancora più sfumati e sfuggenti. Forse il retrogusto che si prova dopo l’ennesimo ascolto di Days Before A Day si può, con qualche approssimazione, trovare anche in quei lavori (notare: entrambi europei). Illuminanti in tal senso sono la complessa Drained By Diamonds (uno dei brani preferiti da Matteo Agostinelli), All That Shines, dove il cantato ipnotico ripete senza sosta “cause they all shine the same way” e la mia traccia favorita, ovvero Eyes Of Dazzlig Bright con quel ritornello tanto azzeccato quanto strano. Il singolo Spring To Downcomers (da vedere il video!) ha un inizio celestiale sporcato da glitches per poi evolversi in un saliscendi melodico che denota i progressi vocali di Matteo, il quale per un momento abbandona il suo tipico timbro nasale. Registrato a più riprese, studiato nel minimo dettaglio ma non per questo svuotato di sostanza, Day Before The Day segna una svolta nella carriera (a mio avviso mai deludente) degli Yuppie Flu. Un’opera che sicuramente verrà ricordata fra le più importanti e “smaliziate” della band. Lo stile si è affinato in maniera impressionante, il talento pure. Manca ancora il vero e definitivo capolavoro, ma c'è tempo.
secondo me questo disco è stato troppo sopravvalutato
dalla stampa. un disco carino, ma nulla di più in confronto con
altre cose uscite in questo periodo, anche italiane.
Gian

Questo disco non è solo straordinario. E' anche assolutamente perfetto.
Stefano [memorywaves]

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Giardini Di Mirò - Punk... Not Diet! (Homesleep, 2003)
Attesissimo, esce finalmente il nuovo disco dei Giardini Di Mirò: dopo Rise And Fall Of Academic Drifting la ripetizione della formula (e il suo relativo successo assicurato) erano dietro l'angolo, ma per fortuna nostra le cose non sono andate così. La svolta era stata annunciata nel The Soft Touch EP, dove le parti vocali diventavano più importanti che nel passato: in Punk... Not Diet! sono parte integrante del disco, in più spruzzate di elettronica (ad opera anche di Styrofoam, Thaddy Herrmann e Nitrada) sono presenti qua e là, senza mai essere invasive. I brani non perdono per nulla la sognante melodia in odore di postrock, le atmosfere dilatate dei brani ci sono sempre, ma i brani, ormai canzoni, ormai non possono più fare a meno della voce: su tutte quella di Alessandro Raina, delicata ed emozionante, perfettamente adatta al mood dei Giardini, ma anche quelle delle sorelle Kaye e Christy Brewster e di Ronnie Jones. Quest'ultimo introduce il disco nel pezzo iniziale, parlando su un arpeggio di chitarra micidiale che sfuma nel feedback per lasciare spazio a The Swimming Season: un testo romantico (con momenti eccezionali: "You've been scared as tons of christians feared the lions in the coliseum and cried for solitude") si appoggia su un classico pezzo dei GdM, anche se nel finale fanno capolino sassofono e clarino free. La seguente Given Ground, il primo singolo, ha un incedere secco di batteria formidabile nella strofa, per poi portarci dentro le colate di dolcezza del ritornello. C'è poi l'unico brano interamente "vecchio stile", uno strumentale da più di otto minuti con sfuriate Mogwaiane e crescendo, dove mostrano come sarebbe stato davvero facile per loro fare un nuovo disco come Rise And Fall...; segue il primo dei tre brani composti con l'apporto di Styrofoam: Once Again A Fond Farewell, perla acustica con effetti digitali che mi ricorda gli Hood di The Cycle Of Days And Seasons; poi è il turno del vero e proprio pezzo "pop" del disco: la dolcezza malinconica di The Comforting Of A Trasparent Life è irresistibile (sempre occhio ai testi: "she fills the room with dark blades of grass that she couldn't revive") e Styrofoam orchestra digitale e analogico con un risultato da brividi... In When You Were A Postcard c'è pure il banjo ad accompagnare l'andamento pigro e dolce della canzone, che magicamente nel finale si accende trasformandosi in uno strumentale. C'è ancora il tempo per il lirismo di Last Act In Baires con le voci delle sorelle Brewster, prima del finalino strumentale per violino e pianoforte.
Un disco veramente maturo e riuscito, in cui la personalità del gruppo e la qualità delle canzoni non hanno più bisogno di paragoni con nomi stranieri per mostrare quanto valgono.

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AA.VV. - Everything Is Ending Here - A Tribute To Pavement (Homesleep, 2003)
Le coincidenze a volte sono spaventose: leggo infatti che Daniele Rumori di Homesleep ha scoperto i Pavement quasi per caso mentre giocava a Sensible Soccer su Amiga. Non ci crederete o non ve ne fregherà nulla, ma la stessa cosa è capitata pure a me, tanto che quando passava un loro pezzo perdevo le partite affascinato dalle melodie oblique di quello strano gruppo. Era il 1993 se non sbaglio. E i tornei di Sensible Soccer tra amici nella mia afosa stanza hanno segnato l’estate di quell’anno. Senza esagerare, la band di Stockton ha lasciato tracce incancellabili nella mia memoria e ascoltando questo mastodontico doppio cd di trentasei brani per trentasei gruppi si può constatare come quei ricordi abbiano sfiorato tante e tante persone che si sono avvicinate alla band. Detto ciò, un album tributo dedicato ai Pavement suona comunque strano. Un po’ come se uno studente nerd alla sua festa di laurea si rifiuti ad aprire bocca mentre tutta la parentela si alza in piedi urlando: “Di-scor-so! Di-scor-so!”. Insomma i Pavement poco si prestavano e poco si prestano a celebrazioni, e, a qualche anno dallo scioglimento questa dedica può essere vista come una commemorazione che, per quanto sentita, involontariamente avrebbe finito per incensare chi semplicemente desiderava essere lasciato in pace. Tanto in vita, quanto da morto. Apro una parentesi: avete presente il funerale-parata di Giorgio Gaber condito dalla presenza di un commosso Berlusconi? ok, Gaber era il marito di Ombretta Colli, ma non penso che da lassù certa retorica gli abbia fatto molto piacere. O magari si è divertito come un matto, chissà. Purtroppo i morti non hanno diritto di replica. Sperando di aver chiarito i leciti dubbi su certe operazioni, l’album in questione, pur non imprescindibile, è comunque - con tutti i se e i ma del caso - quanto di meglio si sarebbe potuto realizzare, in primis perchè porta alla luce una manciata di straordinari gruppi indie di cui prima solo in certi ambienti di nicchia si conosceva l’esistenza. Ma è soprattutto l’onesto e disinteressato amore della famiglia Homesleep per Malkmus e soci, a rendere questo progetto, rischioso sulla carta, qualcosa di sicuramente apprezzabile e riuscito. Si aggiunga, a fugare ogni perplessità, il beneplacito convinto all’iniziativa da parte di alcuni membri degli stessi Pavement (mi riferisco a Spiral Stairs il quale ha addirittura coinvolto due band sotto la sua etichetta Amazing Grease per il tributo, ovvero Oranger e Panty Lions. Una curiosità: mi sarebbe piaciuto sentire anche la campana di quel simpaticone di Malkmus). Tutto a posto dunque? Direi di sì, magari con qualche distinguo. I primi che cominciano veramente a scaldare l’ambiente, dopo il souvenir inedito di Spearmint che cita i brani più celebri della band, sono sicuramente i Bardo Pond che creano su Home una coltre di feedback nella quale si inserisce in conclusione un’improbabile tromba. Anche gli Yuppie Flu confermano la loro classe rispettando lo spirito di Give It A Day, pur rallentandola rispetto all’originale. Solex invece fa di testa sua con Shady Lane e la trasforma in una filastrocca un po’ inutile. Tante le cover di Here: Number One Cup (ormai sciolti), Tindersticks e Lunchbox. Tutti offrono una propria versione (più o meno riuscita) di quella che è la canzone capolavoro contenuta nell’immenso Slanted And Enchanted. Notevoli Appendix Out e Lenola che ci regalano, rispettivamente, una pacata Frontwards (contenuta nell’ep Watery Domestic) e una lisergica Kennel District. Seguono Quickspace con un delirante adattamento di We’re Underused e i talentuosi Saloon con il pezzo Shoot The Singer. Dopo la diligente prestazione di Julie’s Haircut con Summer Babe, l’indie(teu)tronica di C Kid compie il miracolo di ritoccare In The Mouth Of A Desert pur rispettandone la natura e la melodia: manco a dirlo il brano costituisce uno degli apici dell’opera. Potrei continuare a citarvi cover per ore, ma qui si rischia di fare notte vista la quantità di gruppi coinvolti. Simpaticissimi i Garlic con la briosa Gold Soundz, meno invece i pur dotati Future Pilot Aka da Glasgow che hanno reso un inno melodico come Range Life, una canzone troppo sospesa ed evanescente per coinvolgere. Nuove promesse da segnalare: gli americani Boxstep, gli olandesi John.Wayne.Shot.Me (evvai!) e gli italiani Tiger Wood alle prese con rispettivamente Stop Breathing, I Love Perth e Elevate Me Later. I primi rimandano a degli Ida più orchestrali, gli altri li raccomanderei agli adepti di Grandaddy e Radar Bros. Anche i Perturbazione si mettono in gioco con la bella We Dance, e ne escono vincitori. Una menzione meritano pure i Tyde con Perfect Depth (uno dei primissimi pezzi della band di S. Malkmus) e la sua coda di chitarre. Rispettosi del formato originale invece si sono dimostrati Magoo, El Goodo e Airport Girl con i brani Perfume V, Trigger Cut (entrambi presi dal primo album della band di S. Malkmus) e Cut Your Hair (inserita nell’indimenticabile Crooked Rain Crooked Rain).
Che dire, un lavoro più che convincente, ma che forse sarebbe stato più fruibile con una cernita più accurata e ristretta dei gruppi da coinvolgere.

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Julie's Haircut - The Power Of Psychic Revenge (Homesleep, 2003)
L'indierock degli anni novanta, ecco l'amore mai nascosto dei Julie's Haircut: a ricordarcelo, dopo un periodo di silenzio dal punto di vista discografico, ci sono questi cinque brani di The Power Of Psychic Revenge, anticipazione del disco che arriverà in autunno sempre per Homesleep; la band in questo periodo è rimasta in attività sul fronte live, partecipando al MTV Brand New Tour. L'iniziale The Power Of Psychic Revenge è chiaramente Matadoriana, una gran bella canzone che rimanda ad alcuni degli stilemi più azzeccati di scuola Yo La Tengo; Shabby Girls At Piccadilly Stryx odora di Breeders misto a certi lati più melodici del catalogo Touch And Go ed il pezzo è riuscitissimo, anche grazie alla doppia voce maschile e femminile. La Ballad Of Deejays racconta di come sia difficile diventare grandi e mi ricorda alcune cose di Redd Kross... La delicatezza di Lost In A Riot (sentirsi persi nel bel mezzo di una rivolta di strada...), piano e voce, lascia spazio alla cover degli Spacemen 3, Hey Man, in cui i Julie's mostrano tutte le loro doti psichedeliche.
Per i miei gusti, l'avere perso il lato più Blues Explosion del loro sound è senz'altro positivo: i Julie's Haircut sono sempre riusciti a convincere dal vivo, e da queste avvisaglie forse è la volta buona anche per dimostrare di essere cresciuti dal punto di vista compositivo. E poi sono anche io innamorato dell'indierock degli anni novanta, si era capito?

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