Gammapop

Rock and roll final solution. Questo è il motto della Gammapop (www.gammapop.com), etichetta italica che si occupa di grintoso R'nR nostrano. Rigorosamente cantato in inglese perloppiù: niente rock italiano, ma bensì italiani che suonano rock, e non è precisamente la stessa cosa...
Con un occhio alla scena indipendente americana degli anni novanta, l''etichetta si è creata un buon seguito di critica e pubblico: qui di seguito ci sono un po' di uscite più o meno recenti. Un consiglio, non perdete queste band dal vivo...

Joe Leaman - People Against Loneliness EP (Gammapop, 2001)
Joe Leaman - Fried Sponge (Gammapop, 2002)
I Joe Leaman. Ragazzi di provincia cresciuti a pane e wave americana, anzi rock americano di metà anni '80. Muscolare ma fatto di canzoni, di melodie riconoscibili e di chitarre ben presenti, mai fini a se stesse. Il secondo disco, il primo con una buona distribuzione, Crappy Barband Shocklrock ha stupito un po' tutti per la maturità delle composizioni e per la freschezza di un suono che partiva svantaggiato in quanto già "vecchio". Nessuno ha ancora sdoganato molto del sopracitato rock e quindi... Ci hanno pensato forse proprio loro rinverdendo certi fasti, inserendone echi nella loro musica. Il trio torna quest'anno con ben due dischi: una prima uscita su singolo che contiene, a mò di piccolo promozionale di benvenuti su Gammapop ad uso e consumo di curiosi e giornalisti svagati, una traccia dal precedente, una dal nuovo, un inedito e la cover, momento migliore del liveset, di Smalltown Boy cantata negli anni ottanta da quel capolavoro di personaggio che fu Jimmy Sommerville. Il singolo è un ottima introduzione alla band, consigliatissima per chi vuole assaggiarli senza dissanguarsi (anche se in realtà il costo delle uscite Gammapop è sempre piuttosto contenuto). Dim Harry As Variant cantata a due voci da Giancarlo e dalla bassista Laura è sicuramente il pezzo migliore di CBS mentre l'inedita Twilight si muove su canoni decisamente da ballad, con tanto di vibraphonette (dal suono simile allo xilofono ma più caldo, decisamente una specie di vibrafono...), con tanto di coro finale. Il disco nuovo, invece, pecca più per la mancanza di piccole chicche o hit single che non di qualità. Mi spiego. Mentre il singolo vive e respira della particolarità e della brevità dei suoi quattro pezzi, l'album, come già il precedente, manca di picchi. Scorre liscio con degli ottimi brani, il songwriting è se possibile ancora migliorato, i riferimenti smussati e ampliati, ma non riesce ad avere quell'appiglio che ti porti a schiacciare a ripetizione il tasto play su di un pezzo piuttosto che su un altro. Le canzoni sono ottime ma scorrono troppo, hanno difficoltà a fermarsi... Mentre dei brani del singolo non se ne ha mai abbastanza, di questi non ti stufi, ma neanche riesci a ricantarli sull'autobus appena uscito di casa. Ottimo gruppo dal vivo, dove i brani vivono della loro suonabilità e del loro tiro, peccano in registrazione per la mancanza delle "catchy" non delle "tunes"...

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One Dimensional Man - You Kill Me (Gammapop, 2001)
Sean Meadows & David Lenci - Red House Blues (Gammapop, 2002)
Terzo disco per One Dimensional Man, momento nel quale le band spesso cominciano a ripetersi preoccupantemente: non è questo il loro caso, per fortuna. Dopo le sfuriate noise-bluesy dei loro dischi precedenti (vedi l'esplosivo 1000 Doses Of Love) sarebbe stato facile reiterare, e invece, pur sempre mantenendo la foga in certi episodi (Inferno, It Hurts), questo You Kill Me dà alla maggior parte dei brani c'è un taglio differente: la tensione c'è sempre, ma invece di esplodere spesso i pezzi sono maggiormente contenuti. Non che basso e batteria non siano sempre lo schiacciasassi di una volta, ma il meglio di questo disco sono i brani come l'iniziale Saint Roy, con un bel taglio pop e You Kill Me, dove la bella voce di Pierpaolo e le chitarre SonicYouthiane creano un brano veramente intenso. Atmosfere sempre tese, maggiormente oblique rispetto al passato: una buona strada, la curiosità a questo punto è sul prossimo passo...
David Lenci e Sean Meadows (nei June Of '44, sciolti da poco) si sono incontrati a primavera scorsa per stare un po' assieme e suonare qualcosa in piena rilassatezza. Quello che ne è venuto fuori li ha convinti a chiamare i Laundrette e a registrare il tutto in presa diretta. Hanno fatto bene: nei sette pezzi che ne sono risultati dev'essere finita quella che immagino essere stata l'atmosfera amichevole e rilassata: il disco è pervaso da calme e placide melodie, costruite da pschiedeliche e blueseggianti parti di chitarra, mai banali anche nel riacalcare generi ultra sentiti. Su tutte spicca Solidarity Fight Song, una vera boccata d'aria fresca, ma tutto il disco nel suo complesso è realmente efficace nel dare queste sensazioni. Niente nervosismo, niente stress, solo una bella e rilassata vacanza: speriamo che molti altri musicisti vadano a fare un salto da David al Red House Studio nel tempo libero, per il bene delle nostre orecchie...

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Julie's Haircut - Fever In The Funk House (Gammapop, 1999)
Julie's Haircut - Stars Never Looked So Bright (Gammapop, 2001)
I Julie's Haircut stanno ritagliandosi un spazio di tutto rispetto nel mondo indie (e non solo) italiano e internazionale. Il quintetto emiliano (di Sassuolo se non sbaglio), amico e conterraneo dei Giardini Di Mirò con i quali ha lavorato per la registrazione di una cover di Shannon Wright contenuta nella compilation Homesleephome 2, ha finora dato alla luce due albums ed ha saputo gestire egregiamente la propria immagine (andate a dare un'occhiata, fra l'altro, al loro sito, www.julieshaircut.com ricco di news, recensioni e molto curato nell'impostazione grafica). Il loro primo album risale al 1999 ed è un grezzo e improvvisato pugno alla bocca dello stomaco. Dato così, tanto per fare. Quasi in amicizia. Frullando insieme un plot di influenze, dagli Stooges a Jon Spencer Blues Explosion, senza dimenticare i paladini Pavement (a margine: più passa il tempo più ci si rende conto di quanto questi ultimi siano stati seminali), i Julie's danno vita ad un sound che, se proprio non si può dire originale, è energetico e vitale e dimostrano di avere imparato perfettamente la lezione senza per questo avere troppi debiti nei confronti dei modelli succitati. In un certo senso rimangono precursori di quel neo-tradizionalismo rock che oggi annovera quali capostipiti The Strokes e Black Rebel Motorcycle Club. Fever In The Funk House contiene ruvide melodie tanto semplici nella struttura quanto efficaci nel risultato, dal blues rantolante del miglior Jon Spencer (Nuclear Core Blues e il punk 'n roll di Too Much Love) alla goliardia indie-pop-garage di Everyone Needs Someone To Fuck. My House Is On Fire e High School Confidential sono i pezzi forti dell'opera. Il primo inizia in sordina per poi conficcarsi nel cranio con quei ricamini sinuosi delle due chitarre, mentre il secondo è un brano dotato di un riff di grande appeal. C'è anche una sorta di omaggio ai Sonic Youth con la filastrocca di Chip & Fish Brain. Un consiglio: non perdeteli dal vivo. Il cantante chitarrista Nicola si diverte come un pazzo, è tutto un saltello, uno spasmo, una smorfia. A stento Laura, la bassista, riesce a trattenere un sorriso osservando le sue performances. In poche parole: meglio nei live che su disco. Un po' il discorso inverso degli Yuppie Flu.
Il capitolo successivo somiglia più ad una carezza seguita da un ceffone dato a tradimento (oltre che calcolato) e segna l'entrata a pieno titolo nel gruppo del "reverendo" Fabio Vecchi alle tastiere. Va subito detto che preferivo la genuinità dell'esordio nonostante l'iniziale e bellissima Pass The Ashtray, per la quale i Grant Lee Buffalo avrebbero fatto carte false. Non male neppure Everything Is Alright degna del Lou Barlow dei tempi d'oro: sì, quello che con due accordi e un basso caldo infuocava i nostri cuori. "Il tentativo di sfuggire ad un'omologazione deve passare da strumenti imperfetti, da oggetti che sporcano le mani [...] il vintage è una moda da fighetti, ma lo sfruttamento indiscriminato della trdizione è un'azione di rivolta musicale", affermano. Un concetto questo che rimanda alla frase "la tradicion es revolucionaria" incisa sul cd -debutto e che a sua volta evoca inevitabilmente quel "la normalità è la vera rivoluzione" infilata nel pessimo film di Muccino. Un'idea (quella del regista dell'ultimo bacio) falsamente saggia e molto subdola per contenere qualsiasi forma di devianza. In musica e in politica. Ma questa parentesi polemica non riguarda l'acconciatura di Julie. O almeno ci spero. Per la copertina del disco la band si è avvalsa di un bel quadro di Mario Schifano del '70. I brani spaziano dall'immediatezza garage del singolo Set The World On Fire (la Lego ringrazia e anch'io perchè il video è proprio carino) ai toni languidi della ballata folk (Sextown). C'è posto anche per le scorie punkeggianti di Sumopower e per l'irruenza e i fremiti noise-punk di Geza X in cui la voce (o le urla) sono prestate da Laura. Simpatico anche l'intro di Hot Pants: pura coprolalia telefonica. Nel complesso i tempi qui sono più blandi rispetto all'esordio, anche se l'esigenza di un ritornello facile facile è sempre dietro l'angolo. L'anno scorso, nella parte conclusiva del loro concerto al D.M. la band aveva mostrato notevoli potenzialità che viravano decisamente verso la psichedelia e la dilatazione abrasiva dei pezzi. Nel disco tutto ciò si nota quasi impercettibilmente nella conclusiva When Did It Start Going Wrong?. Mi pare sia in questa direzione che dovrebbero muoversi in futuro. Ne guadagnerebbero in qualità e personalità.

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