Engine Down

Under The Pretense Of Present Tense, primo album degli Engine Down, è già un classico dell’emo-core. E’ stato registrato solo pochissimi anni fa, sul finire del ’98, eppure riascoltandolo oggi ci si rende conto di come tanti gruppi e troppi dischi siano venuti dopo e quasi nessuno sia riuscito ad eguagliare l’intensità di quel CD dalla copertina bianca...
Del resto il gruppo, nonostante la giovane età, non era certo alle prime armi: per tutti e quattro i membri (Cornbread Compton, Jason Wood, Jeremy Taylor e Jonathan Fuller) c’era alle spalle una militanza in gruppi hardcore e indie. Su tutti certamente spiccava la maggior esperienza di quest’ultimo, batterista dei bravi ma sfortunati SleepyTimeTrio, nati a loro volta dai fondamentali Maximilian Colby; per l’occasione Jonathan passa dai tamburi alla chitarra con una naturalezza che non può che stupire. “Suono ancora la batteria in un gruppo chiamato Denali. Mi piace suonare entrambi gli strumenti per molte ragioni. Mi sento più a mio agio alla batteria, perché posso lasciarmi andare e suona ancora bene. Ma amo anche scrivere melodie con la chitarra.... In ogni caso credo che il mio modo di scrivere canzoni abbia continuato ad evolversi per tutti e due gli strumenti e non che ci sia stato un brusco passaggio dall’uno all’altro”. E’ lui uno dei propulsori attorno a cui si organizza la musica degli Engine Down: un suono secco e spoglio ma continuamente arricchito da variazioni ritmiche, da break che preludono altre ripartenze, e da un senso melodico tanto raro quanto calibrato che poco ha da spartire con le velleità poppettare di colleghi più o meno noti. Non stupisce allora il fatto che dietro e accanto a spigolosità post-punk (Nearsighted ci ricorda che Washington DC è lì, a due passi da Harrisonsburg) le linee melodiche siano poche ma memorabili, essenziali. O che lo spettro dei Rachel’s faccia la sua naturale comparsa, con un piano prima e un violoncello poi, alla fine di Daredevil. O ancora come sotto sembianze post-core, nell’incedere di Brushes e The Offer Of Something si possano nascondere gli Slint o i Karate dei primi due album. Perché banalmente, o forse neanche tanto, c’è una certa inattesa dose di poesia in questo disco, un’epicità trattenuta e tutta quotidiana che si traduce anche a livello di testi in cui, accanto a classici rigurgiti hardcore (“We’re running our course/towards an end”) trovano spazio versi intensi: “Sending blank letters to a blind lover/speech becomes muted of feeling/the same scene repeats/a thousand times in just an instant” (Brushes); o “And just forget/how many times can we say/goodbye and still smile” (The Offer Of Something).
Un anno dopo, nel 2000, è sempre la Lovitt a pubblicare il secondo disco degli Engine Down che perdono per strada Jeremy Taylor ma trovano un degno sostituto in Keeley Davis (dei Bughummer) che d’ora in poi si occuperà anche della maggior parte del cantato. To Bury Within The Sound è il loro capolavoro e ha un titolo programmatico ed esplicativo: i nostri sprofondano all’interno di un suono che si è fatto sì più maturo e più melodico (in parte riportabile a certe cose dei Sunny Day Real Estate) ma proprio per questo malleabile ed elastico, in cui ritmo e melodia non si alternano più come una volta ma si rilanciano a vicenda. Una maggiore coesione e un’immutata dinamicità rendono così pezzi come Retread, Intent To Pacify, Depth Perception, In Favor e Two Tone altri piccoli classici. Più sofferto e intimistico del precedente album, e quindi anche meno urlato, To Bury… non può fare comunque a meno della lezione imparata nel loro più o meno recente passato. Un po’ come accadde ai Karate (meno) e ai June Of ’44 (più), e quando lo faccio notare a Jonathan ammette: “Credo che aver suonato musica più rumorosa in passato mi abbia aiutato a indirizzarmi dove sono adesso. Ho imparato certe dinamiche del suono, della melodia e tutti quei mezzi che possono creare una tensione musicale che sia sì rumorosa ma anche imprevedibile”.
L’EP che esce l’anno successivo in occasione del loro tour europeo, A Sign Of Breath (Day After), registrato agli Inner Ear con J.Robbins (ex-Jawbox) è in parte la naturale prosecuzione di To Bury… (Retone ne riprende Two Tone) in parte un’avvisaglia di quel che sarà l’album successivo. In un pezzo come Your Suit infatti la melodia per lunghi tratti è più malleabile ed esposta, e per In On The Kill, nonostante l’impegno profuso in fase ritmica, si può quasi parlare di emo-rock. Sempre meglio comunque di tanti altri emo-corer alla riscossa…
Con il recente Demure (ancora su Lovitt, una delle etichette migliori della nuova ondata emo che sta attraversando l’indie-rock d’oltreoceano) gli Engine Down superano indenni l’ostacolo del terzo album, senza contare che Fuller e Davis si sdoppiano egregiamente nei Denali. Disco della maturità e quindi meno imprevedibile dei precedenti, Demure è evocativo senza essere auto-indulgente (vedi le ultime contraddittorie prove di Appleseed Cast e Gloria Record), toccando punti inaspettati dei nostri neuroni assuefatti sia alla melodia facile che all’urlo gratuito.
Roberto Canella

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