Damon & Naomi - The Earth Is Blue (20/20/20, 2005)

Emersi dalle ceneri dei Galaxie 500 (una delle migliori cult band di sempre), Damon & Naomi hanno lunga esperienza e curriculum di rispetto, nonché un talento che hanno saputo centellinare saggiamente, calibrando le loro uscite lungo i tre lustri scarsi trascorsi dacché la Galassia ci lasciò. A loro nome fin’ora un live e quattro lavori in studio, uno dei quali in collaborazione coi giapponesi Ghost (il cui chitarrista Michio Kurihara è presente con la sua acida sei corde per tutto questo C, qualcosa meno di un membro della band e molto più di un ospite).
All’incirca un disco ogni tre anni: cosa che equivale a parlare solo quando si ritiene di aver qualcosa da dire, e in tempi di sovraesposizione come questi già un pregio non bastasse la musica, come al solito splendida. Anzi, no, di più. Perché, nonostante il tempo trascorso e un suono che corteggia la classicità, la coppia stavolta spinge le sonorità un po’ oltre i familiari arpeggi cristallini, onde concentriche che si rifrangono in una serie di specchi, ipnotiche e ammaliatrici. Niente rivoluzioni: ancora di una versione più lineare e bucolica dei tardi Galaxie 500 si tratta, dove la bilancia delle influenze fa pendere il piatto più verso gli acidi anni ’60 che verso la new wave (nel programma una splendidamente sommessa While My Guitar Gently Weeps, ma anche una Araçà Azul a firma Veloso a mescolare le carte). Mai calligrafica, però, giacché ospitare ai fiati Greg Kelley e Bhob Rainey dona coloriture jazzate inattese (nella title-track e in Malibran soprattutto, apici del cd: Arthur Lee sorride compiaciuto...). Laddove nella loro precedente vita artistica i due fondevano minimale psichedelia con la Manchester dei primi ’80, qui lo sguardo corre più verso la California che sappiamo (Kurihara sembra l’incarnazione di John Cipollina): estatico, agreste folk psichedelico, lontano da sterile revivalismo e incantevole (quasi) come quindici anni fa. Tempi in cui un giornalista inglese, recensendo i Galaxie 500, scrisse del "suono della neve che cade sulle foglie morte".
Porgendo l’orecchio, con discrezione, potrete coglierlo anche qui.

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